P.I. Tchaikovsky: Serenata per archi in do maggiore op.48
H. Berlioz: Sinfonia fantastica op.14

Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
Direttore: Zhang Xian

 

Il 2013 è stato anno di grandi ricorrenze. L’attenzione è stata giustamente catalizzata dal doppio bicentenario Verdi-Wagner, che tutte le istituzioni hanno celebrato chi in un modo chi in un altro, in attesa della Traviata del 7 dicembre che sarà l’ultimo sigillo su questo anno verdiano. Non duecento ma venti anni fa nasceva invece un’altra Verdi, l’Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, che oggi affettuosamente tutti i milanesi chiamano laVerdi. Era il 13 novembre 1993, sul podio c’era il fondatore Vladimir Delman, e il primo brano non poteva che essere del suo amato Čajkovsky, ovvero nello specifico la Serenata per archi. Seguiva un battesimo di fuoco per l’allora neonata orchestra: la Sinfonia fantastica di Berlioz. Oggi è il 13 novembre 2013, sono passati appunto 20 anni esatti e laVerdi vuole riproporre il medesimo programma. Sul podio non può più esserci Delman, scomparso nel 1994, e solo la sua attuale erede, la direttrice musicale Zhang Xian, può prendere su di sé questo pesante testimone.

Scelta piuttosto curiosa, quella fatta da Delman allora in favore della Serenata per archi in do maggiore, sorta di isola felice nel repertorio čaikovskiano, celebre forse più per la sua drammaticità. Lo stesso Delman, parlando a dei giovani esecutori, fu molto eloquente nel mostrarci la visione del mondo di Čajkovsky: si fece portare una rosa da una bella ragazza per poi immediatamente scaraventarla a terra e calpestarla. Niente di tutto questo nella Serenata, che, pur non essendo priva di una vena dolorosa (specialmente nell’Elegia), non subisce mai una brusca ed evidente irruzione del fato a rovinare tutto. Il fluire delle tessiture degli archi non ha sostanzialmente mai fine, seppur articolato in quattro movimenti (di cui un valzer) che lo avvicinano alla forma sinfonica. Il primo movimento, “in forma di sonatina”, rimanda subito al modello di serenità olimpica di questa composizione: Wolfgang Amadeus Mozart. Almeno nello spirito, perché la forma è quanto di più tardoromantico si possa immaginare, con abbondanza di scrittura per parti divise e largo uso di armonie dilatate. Ci aspetteremmo di vedere subito salire sul podio Zhang Xian, e invece la sorpresa è che la pedana resta vuota, mentre gli schermi proiettano immagini di Vladimir Delman, come a lasciar intendere che quel posto è suo. Un bell’omaggio, particolarmente toccante durante l’Elegia, che ci ha ricordato il collegamento, tracciato da Erwin Panofsky in un celebre saggio, fra questo genere e il topos pittorico dell’Et in Arcadia ego. Parafrasando pareva quasi essere lo stesso Delman a parlare attraverso le note elegiache: et in Čajkovsky ego… Orfana di direttore, la concertazione tocca dunque al primo violino Luca Santaniello, veterano dell’orchestra, tanto che era presente (fra i secondi violini) anche quella sera di vent’anni fa. Santaniello ci è parso molto attento e chiaro nell’anticipare e preparare gli attacchi con uno sguardo rivolto alle altre tre prime parti. Non è mancata infatti all’esecuzione un’ottima precisione, che ha reso efficace quel sistematico ricorrere del tema principale dopo una marcata pausa (avviene anche, come reminescenza, alla fine del quarto movimento). Forse sono risultate invece insufficienti le variazioni dinamiche, con una tendenza ad appiattire tutto sul forte nei due movimenti estremi e sul piano nei due centrali, che sono stati probabilmente anche i due più d’impatto. Avendo già accennato del pathos accumulatosi durante l’Elegia, dove a turno violini, viole e violoncelli si passano la melodia mostrando splendide differenze di colore (fondamentali anche per ben distinguere la ricchezza del tessuto di canti e controcanti), ci soffermiamo ad evidenziare un momento anche l’estrema eleganza e raffinatezza del secondo movimento in forma di valzer, che è stato ripetuto come bis dato l’entusiasmo del pubblico.

Se fino a qui se l’è cavata egregiamente Santaniello, eseguire la Symphonie fantastique di Berlioz senza un direttore sarebbe stato invece decisamente un atto di autolesionismo. A maggior ragione poi se c’è a disposizione un virtuoso del podio dall’ormai comprovato feeling con l’orchestra come Xian Zhang. La minuta direttrice cinese è, come sappiamo, piena di energie, e qui trova pane per i suoi denti. Il primo movimento ci è parso il meno riuscito, complice la volontà di legare forse eccessivamente i suoni con la conseguenza di perdere di precisione in certi attacchi, specialmente dei legni, che hanno anche faticato a coordinarsi fra loro. Non è certo un difetto di tecnica della Zhang, che dimostra nei pizzicati e nei passaggi in staccato di saper sincronizzare alla perfezione tutti i reparti, piuttosto ci è parso che ogni tanto vi sia quasi un eccesso di fiducia nei suoi mezzi e in quelli dell’orchestra. Nulla deve essere banale, ogni tanto pare ella voglia addirittura sorprendere la sua orchestra, col rischio a tratti di soffocare il fluire della musica e complicare la vita degli esecutori in una lettura molto nervosa e minuziosa fino al dettaglio. Esemplificativo il passaggio energico nel finale del primo movimento (prima del ritorno dell’idée fixe), reso con una frenesia implacabile che, nonostante l’orchestra abbia risposto colpo su colpo, tendeva ad accozzare il materiale musicale sparato a raffica nelle orecchie dell’ascoltatore. Idee discutibili insomma, mentre non si può discuterne la realizzazione pratica, davvero impressionante. Nei seguenti movimenti abbiamo riscontrato in ogni caso anche un allineamento di queste idee con una lettura più organica e funzionale, prima coi morbidissimi archi nel Bal, poi con una compatta e atarassica Scène aux champs (bene i due corni inglesi), infine con la perentorietà della Marche au supplice e la sfrenatezza, qui si azzeccatissima, del Sabbat conclusivo. Notevole soprattutto il volume, ffff, che la Xian riesce a tirare fuori dall’orchestra senza perderne mai il controllo, esaltando in particolare gli archi negli accompagnamenti propulsivi (di tutti i generi: in tremolo, in controtempo, con la bacchetta, pizzicati) e gli ottoni nelle tetre perorazioni da requiem. Si riscattano anche i legni, con in grande risalto i clarinetti in quello zoppicante incedere diabolico nel registro sovracuto che ci introduce al Sabbat. Il finale è stato decisamente una grande prova di forza dell’Orchestra Verdi e della sua direttrice (molto provata a fine concerto), a testimonianza degli enormi progressi fatti da questa compagine che è oggi capace davvero di porsi fra le poche eccellenze italiane rimaste in questo campo e paragonabili a quelle straniere. Non è un’orchestra storica, con un suono particolare o con immensi solisti, ma è un’orchestra che suona tanto e suona bene, affrontando con sempre maggior fiducia le partiture più ostiche e facendone oramai consapevole occasione di sfoggio, come quest’oggi. Non a caso proprio quest’estate e proprio con la Zhang è arrivata la prestigiosa convocazione ai BBC Proms di Londra.

La serata si è conclusa poi in festeggiamenti, non solo per i tanti applausi e le vibranti grida di entusiasmo, ma anche per i bicchieri di champagne offerti da laVerdi a tutti i partecipanti a fine concerto! Ricordiamo assolutamente in chiusura che le celebrazioni non finiscono qui, perché settimana prossima, ovvero il 21 e il 23 di novembre, c’è ancora il ritorno dell’altro grande direttore storico de laVerdi nonché trait d’union fra Delman e Zhang: Riccardo Chailly con l’eccezionale Ottava sinfonia di Gustav Mahler.

 

Alberto Luchetti