Riccardo: Mario Malagnini
Amelia: Dimitra Theodossiou
Renato: Igor Golovatenko
Ulrica: Giovanna Lanza
Oscar: Paola Cigna
Orchestra Regionale Filarmonia Veneta
Coro Lirico Amadeus
Direttore Stefano Romani
Maestro del coro Giorgio Mazzucato
Regia, scene e costumi Ivan Stefanutti
Il Bergamo Musica Festival omaggia il maestro Verdi nel Bicentenario nella nascita con questo discreto Un ballo in maschera, modesto sia dal punto vocale che da quello visivo. Un vero peccato perché l’opera in sé è veramente un capolavoro, con quel magico equilibrio tra comico e tragico che fa capire quanto Verdi avesse imparato dalle opere francesi: anche i grand-opéra di Meyerbeer quali Robert le Diable o Le Prophete, infatti, avevano brani comici inseriti all’interno di una struttura molto drammatica. La leggerezza dell’Etoile du nord ad esempio verrà trasfusa nelle scene dell’accampamento con le sue vivandiere da La Forza del destino, ma non si arriva all’indipendenza che gli elementi comici hanno invece nel Ballo in maschera, giustapposti come sono alla vicenda principale. Nel Ballo tutto è forgiato in un unico stampo insomma, come dimostra il personaggio di Oscar, perfettamente incarnato nella struttura drammaturgica di questo melodramma, unendo le innovazioni francesi sulle solide basi dell’opera italiana del primo Ottocento. Non a caso Camillo Boito allora non amò quest’opera, preferendo le opere patriottiche del primo Verdi, che ancora non erano arricchite da elementi estranei alla tradizione italiana quale appunto il ruolo brillante di Oscar, per il quale fra l’altro sappiamo con quale difficoltà Verdi cercò il giusto primo interprete (alla prima all’Apollo di Roma risultò a suo dire “una figurina di cera” quindi senza quella vitalità piccante che trasuda dalla musica del maestro). Anche perché proprio questo ruolo è cruciale per dare fluidità ad una vicenda in cui tutto è concatenato, concentrato e velocissimo, in un susseguirsi di pezzi a più voci che rendono inarrestabile la spinta drammatica. L’orchestra è una miniera di raffinatezze, di esplosioni di gioia e di passi invece più drammatici come la congiura del terzo atto (che la censura Borbonica vietò al pari di tanti altri passi costringendo Verdi a montare l’opera a Roma invece che a Napoli). Di questo brillantezza orchestrale ben poco abbiamo ascoltato da un’orchestra opaca e svogliata, diretta con minimo slancio da Stefano Romani.

Mario Malagnini, che avevamo applaudito tanti anni fa in una Fedora all’Arcimboldi, è parso molto stanco: tutta la sua parte è stata un parlare piuttosto che un cantare. La barcarola nella seconda parte del primo atto è stata proprio tirata via senza alcuna caratterizzazione. Oltretutto, vestito d’argento come un mago prestigiatore, risultava anche piuttosto ridicolo, ma di un ridicolo involontario. Dimitra Thedossiou, cantante greca dotata di un grande impeto che abbiamo recentemente apprezzato nel ruolo di Lady Macbeth a Novara (ve ne abbiamo dato resoconto), sembrava addirittura non sapere la parte tanto era l’indecisione e insicura l’emissione. Deludente la grande aria del secondo atto nell’orrido campo, con suoni non uniformi e tempi allo sbando, certo anche per la mancanza di sostegno da parte di un’orchestra piuttosto dimissionaria.
Molto meglio invece il baritono Igor Golovatenko, molto applaudito: incisiva sia l’aria nell’introduzione che la formidabile “Eri tu” nel terz’atto. La voce robusta e ben tornita ha insomma dato vita ad un credibile personaggio. Altro personaggio di spicco è ovviamente Ulrica, interpretata dal mezzosoprano Giovanna Lanza, che pur avendo parte solo nell’atto primo è riuscita a creare un personaggio a tutto tondo. Vocina sterile infine quella di Paola Cigna, che, se aveva deluso nel recente Furioso (la sua Eleonora era ruolo troppo grande per lei), qui almeno il ruolo era più della sua misura anche se i limiti di una scrittura così impervia non sono stati affatto risolti.
Lo spettacolo di Ivan Stefanutti è molto semplice e con abbondante uso di proiezioni (fastidiosi i lampi digitali nella scena dell’orrido campo). La scena più suggestiva è stata quella nel covo di Ulrica, con un enorme teschio che ritornerà alla fine come maschera dei tre congiurati (un legame quindi tra la profezia e il finale tragico). Con un po’ di impegno si sarebbe potuto realizzare uno spettacolo di più alta qualità mentre sono emersi solo i valori di alcuni cantanti.
Termina qui la nostra partecipazione al Festival di Bergamo con un bilancio positivo soprattutto per le opere donizettiane: non sappiamo ancora i titoli del prossimo anno mentre di solito venivano già rese note con un anno di anticipo, speriamo in qualche bella rarità che faccia fondamento sulle basi di edizioni critiche.
Fabio Tranchida