G. Verdi: Messa di Requiem per soli, coro e orchestra

Orchestra e coro sinfonici di Milano Giuseppe Verdi
Soprano: Chiara Angella
Mezzosoprano: Agunda Kulaeva
Tenore: Mario Zeffiri
Basso: Alexander Vassiliev
Maestro del coro: Erina Gambarini
Direttore: Zhang Xian

Quando la musica riesce a diventare l’occasione per un appuntamento ricorrente significa che essa diventa per la comunità moderna e laica quasi un’eredità di ciò che sono sempre stati i riti religiosi nella tradizione. Se poi si tratta dell’esecuzione di un’opera che cammina incredibilmente sul confine fra sacro e laico, come la Messa di Requiem verdiana, l’effetto è ulteriormente accentuato. L’orchestra Verdi a Milano è stata capace nei suoi due decenni di attività di creare queste ricorrenze oramai care ai milanesi che frequentano l’Auditorium, e difficilmente potrebbe esserci qualcosa di più azzeccato di un Requiem per l’inizio di novembre. L’occasione segna anche il brillante ritorno sul podio della direttrice musicale Zhang Xian, in grande forma.

E’ suo il primo graffio sulla serata, che si apre con l’incipit in pianissimo e sordina in cui ad una prima, scurissima, frase dei violoncelli rispondono più luminosi gli altri archi. Da subito la Xian pare voler distinguere al massimo questi due registri, facendo risaltare il gioco di chiaroscuro quando essi vanno poi a sovrapporsi. Sono le due nature che formano l’anima duplex di quest’opera che abbiamo già detto dispiegarsi lungo un confine: da una parte c’è la tetra disperazione della ragione leopardiana di fronte all’annichilimento, dall’altra il germoglio della speranza manzoniana. Il coro, sommesso, che canta pregando su note fisse, pare iniziare nella totale indecisione fra questi due estremi. Oscillerà poi fra uno e l’altro, prima che essi si dimostrino infine perfettamente compatibili in quell’ossimoro vivente che è l’uomo indagato fin nelle sue profondità (cosa che Verdi ha saputo fare come pochi altri). Tutta l’introduzione orchestrale e corale in la minore è risultata davvero preziosa, eseguita con vero sentimento ma senza dimenticare un grande controllo che ha permesso di enfatizzare coi rubati le figure cromatiche che accompagnano “dona eis Domine” e modulano verso il la maggiore di “lux perpetua”. L’orchestra è in un’ottima serata, non sbaglia praticamente nulla nonostante la Xian richieda loro decisamente molto, specialmente in termini di energia per i fortissimi e di precisione per i tempi piuttosto svelti. Proprio i tempi non indulgenti causano le poche imperfezioni nei reparti dei fiati. In particolare alcune trombe aggiuntive (collocate per stereofonia in galleria) nel Dies Irae hanno quasi inevitabilmente mostrato qualche affaticamento di troppo avendo a malapena il tempo di prendere il fiato. Anche nei confronti dei quattro cantanti solisti la direzione non è stata clemente, ancora una volta in ragione dei tempi rapidi e della tendenza a coprirli con la massa orchestrale (ci sarebbe piaciuto anche qualche attacco più delicato nei pianissimi). Chi è riuscito a tenere invece sempre testa all’orchestra è il coro, diretto al solito da Erina Gambarini. Se si eccettua l’età piuttosto avanzata del reparto maschile, il cui timbro non è sempre suadente, la prestazione corale è stata impeccabile per precisione ed effetti, in una parte che oramai conoscono piuttosto bene. Notevole soprattutto la prova nella seconda parte dell’opera, dove, su modelli rinascimentali, Verdi esige dal suo coro tutte le complessità della polifonia.

Sul fronte delle quattro voci soliste si è fatta notare soprattutto Agunda Kulaeva, mezzosoprano russo che si è segnalato soprattutto per l’omogeneità nei registri e per la solidità nei passaggi, senza dover forzare un timbro già sufficientemente scuro di natura. Nonostante qualche fiato corto (i tempi della Xian come detto non sono stati d’aiuto), ha dimostrato anche padronanza delle inflessioni di fraseggio espressivo, specialmente nell’intonare il Quod sum miser. L’altra voce femminile, di Chiara Angella, è parsa invece la più debole delle quattro, forse a causa di uno stato di forma non perfetto. L’avevamo infatti sentita recentemente (sempre all’Auditorium) in Cavalleria Rusticana con altri risultati, forse anche dovuti alla diversità del ruolo: il forte vibrato che lì poteva risultare drammatico diventa qui, nell’armonizzazione con le altre voci, molto pericoloso. Non nel pieno della salute vocale era anche il quarantenne basso Alexander Vassiliev, comunque capace con un po’ di sforzo di cesellare bene le sue frasi quando non era necessario scavalcare l’orchestra a pieno regime, ad esempio nelle mezzevoci all’inizio del Mors stupebit. Abbiamo lasciato infine per ultimo il tenore Mario Zeffiri poiché ha rappresentato una piacevolissima sorpresa, subentrando all’ultimo minuto all’indisposto Roman Sadnik. Proprio in un Requiem di Verdi, a Chicago con Riccardo Muti, è arrivata una delle prove più importanti nella carriera di questo tenore italo-greco, e ne comprendiamo le ragioni. La voce è salda e di grande squillo, almeno quando può spingere in piena emissione, e non ha problemi a coprire in acuto tutta l’estensione richiesta dalla parte (si pensi che abitualmente interpreta anche Arturo ne I Puritani). Difetta un po’ in morbidezza del fraseggio e mezzevoci (lo si nota specialmente nella prima parte dell’Ingemisco) ma se la cava più che bene anche nelle ornamentazioni (per esempio sulle fondamentali parole di cadenza “absolvisti” ed “exaudisti”, sempre nell’Ingemisco).

Dopo l’ottimo inizio, carico di tensione, la serata è andata parzialmente in calando (si poteva fare qualcosa in più nell’Agnus Dei), per poi recuperare vigore nel Libera me finale, che, dopo aver opportunamente risvegliato il pubblico con una veemente ripresa del Dies Irae, trova finalmente un clima in cui la tinta drammatica della Angella risulta assolutamente funzionale. Stiamo pensando a quell’impressionante grido sospeso di liberazione del soprano solo, a cui poi va aggiungendosi tutto il coro, in un progressivo spegnersi (peccato ancora una volta la Xian non ci conceda mai dei veri pianissimi) che lascia al do maggiore finale lo spazio più esile possibile, ma perciò forse anche il più significativo.

Alberto Luchetti