J. Brahms: Sinfonia n.3 in fa maggiore op.90
J. Brahms: Sinfonia n.3 in mi minore op.98

Orchestra Filarmonica della Scala
Direttore: André Previn 


Doveva essere una festa il primo concerto della nuova stagione sinfonica del Teatro alla Scala, una festa per la musica, con uno dei grandi direttori maggiormente legati all’istituzione, Georges Prêtre, e due apici del sinfonismo occidentale come la Terza e Quarta di Brahms in programma. I primi scricchiolii sono tuttavia arrivati con l’annuncio del cambio di direttore: Prêtre, quasi novantenne, rinuncia per problemi di salute. Se si pensa che negli stessi giorni lo stesso accade con Boulez (di ben un anno più giovane), che lascia orfano di bacchetta il giovanotto Pollini (sono solo settanta e rotti), siamo di fronte a qualcosa più di un segnale. E’ sempre più evidente la gerontocrazia del mondo della musica attuale, tanto sul palco quanto nelle platee. A conferma arriva proprio il nome del sostituto di Prêtre per le tre repliche sinfoniche: André Previn, 84 anni. Per lui è l’esordio in questo teatro e con questa orchestra, un esordio decisamente tardivo, che ha visto salire a fatica sul podio, accompagnato da due maschere, un vecchio leone purtroppo oramai incapace di ruggire. C’è ancora tutta l’eleganza del gesto, la sensibilità musicale, l’intelligenza nelle intenzioni, ma non basta questo per domare un centinaio di orchestrali in partiture complesse come le ultime due sinfonie di Brahms. La festa si è così presto trasformata in un omaggio molto forzato, a tratti quasi pietoso (nel senso migliore del termine) e in definitiva decisamente pesante. Quando l’anno scorso Colin Davis (circa coetaneo) venne alla Scala fu per lo meno per dirigere Mozart, e la differenza fu sensibile. Sono stati in ogni caso molti gli applausi che il pubblico ha dedicato ad André Previn, ossequiandolo come si farebbe con un ospite d’onore.

Parlando delle due esecuzioni sarà necessario dunque fare continuamente la tara delle condizioni in cui l’intero concerto si è svolto. André Previn ha diretto interamente da seduto, gestendo le dinamiche con la mano sinistra e dedicandosi principalmente agli attacchi con la destra. Purtroppo il gesto non aveva il vigore e la precisione di altri tempi, e la risposta dell’orchestra è stata quasi sempre difficoltosa. Chi era più vicino e aveva la possibilità di vedere la sua bacchetta anche quando affondava sotto il leggio, ovvero gli archi, è uscito indenne, mentre i fiati hanno avuto costanti problemi di fraseggio e tempismo. Anche perché lo stesso Previn tendeva inevitabilmente a tempi lenti e frasi di scarso mordente, lasciando gli orchestrali in una perenne sospensione, indecisione e attesa che non ha aiutato a rendere i brani fluidi, ben articolati nelle parti (fondamentale in Brahms) e dotati della necessaria propensione verso la continuazione. Tutti problemi che si sono presentati nella Terza ma che sono stati soprattutto sensibili nella Quarta, ricca com’è di gestualità brusche e di intereventi decisivi. Le cose migliori sono di conseguenza avvenute nei movimenti meno complessi dal punto di vista direttoriale, cioè il terzo della Terza e il terzo della Quarta. Qui si è esaltata la capacità di caratterizzazione timbrica che un grande maestro non perde mai, dato che si costruisce nelle prove e non dipende dalle energie residue la sera del concerto. Negli squarci lirici si sono sentiti finalmente legni e ottoni produrre suoni precisi, coesi, di colore caldo ed evocativo, ricordandoci le tinte dell’autunno che in questi giorni con un po’ di ritardo cominciano a diffondersi. Il finale del Poco Allegretto della Terza è stato probabilmente il momento più intenso della serata, con il magnifico tema ripreso l’ultima volta variandone la dinamica in corsa: prima semifrase ascendente in piano, seconda discendente in forte. Estremamente decadente! Peccato questa sensazione di decadenza, tanto affascinante in quel punto, sia proseguita anche per tutto il successivo Allegro conclusivo, che inizia su tinte fosche ma dovrebbe poi sfociare in un bel fa maggiore a volte definito “eroico” (forse per assonanza con la Terza di Beethoven). Troppo pesanti e sgangherati sono invece risultati gli ottoni, mal guidati dal gesto affaticato di Previn, e troppo carente di pathos il grande climax degli archi.

Sul fronte delle belle cose sentite questa sera possiamo annoverare anche una attenzione rara alle voci secondarie delle complesse trame brahmsiane, che spesso nascondono in profondità una serie di richiami ai temi principali (a volte anche solo nel ritmo o nell’armonia) che altrimenti lavorerebbero solo a livello inconscio e subliminale. Dopo un fiacco e impreciso primo movimento, in cui i bei suoni degli archi nell’esposizione del tema principale non sono bastati a dare nerbo all’inesorabile procedere, e un secondo movimento a cui è mancata totalmente la delicatezza, le cose sono andate migliorando. La scrittura esatta e rigorosa del terzo movimento, Allegro giocoso, ha permesso agli orchestrali di prevedere maggiormente i gesti di Previn, dando forza e decisione a quegli angoscianti accordi che bruscamente interrompono il corso della musica. Anche la passacaglia finale si è mantenuta su livelli di tensione accettabili, almeno se ci si dimentica di ciò che Brahms avrebbe voluto affidare alla sua partitura, e in particolare a quel terribile la diesis che si intromette alla quinta battuta, in pieno tritono rispetto alla tonica (mi) e mai risolto del tutto. Gli ottoni sono stati finalmente efficaci, non solo nelle ripetizioni energiche del tema bachiano ma anche nelle sue variazioni più delicate.

Come detto non sono comunque mancati gli applausi finali per il direttore. Applausi calorosi ma non convinti, affettuosi ma non entusiastici, suggerendo che essi fossero indirizzati più che altro alla grande carriera (anche di compositore e pianista), di cui la serata attuale è stata evidentemente uno sbiadito ricordo. Nonostante il proseguire del battimani, Previn non ha avuto la forza fisica per tornare alla ribalta dopo esser stato con fatica accompagnato fuori, lasciando un retrogusto malinconico a fine concerto. Se c’erano dei giovani in sala, non esattamente il modo migliore di presentar loro la musica classica…

Alberto Luchetti