Massimiliano: Mika Kares
Carlo: Roberto Aronica
Francesco: Damiano Salerno
Amalia: Aurelia Florian
Arminio: Antonio Corianò
Moser: Giovanni Battista Parodi
Orchestra Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore: Francesco Ivan Ciampa
Maestro del coro: Martino Faggiani
Regia: Leo Muscato
Scene: Federica Parolini
Costumi: Silvia Aymonino
Luci: Alessandro Verazzi
Si conclude il Festival Verdi al Regio di Parma con un’opera verdiana ingiustamente poco frequentata: I Masnadieri. Il motivo principale della non immediatezza di quest’opera è sicuramente l’aderenza del librettista Maffei al magmatico testo schilleriano. Un eccesso di aderenza, che fa sì che i personaggi raramente dialoghino veramente fra loro: tutto si sviluppa per compartimenti stagni con rarissime scintille fra di essi. Maffei era troppo stimato da Verdi per essere trattato con quelle maniere dittatoriali con le quali veniva invece indottrinato Francesco Maria Piave. Con I Masnadieri Verdi non aveva perciò possibilità di modificare il libretto, sia sul fronte della versificazione, sia su quello delle situazioni drammaturgiche. Soprattutto i primi due atti sono altamente anti-teatrali, con una successione di cavatine indipendenti e parallele dei vari personaggi. Il duetto dei due amanti nell’atto terzo, che sembra dare nuova forza all’opera, è in realtà senza via di uscita. Le arie e i duetti, per quanto molto ben costruiti, risultano così troppo ripetitivi, con un “cabalettismo” imperante che schiaccia un po’ troppo la varietà delle forme. Forse solo il IV atto è libero da queste strutture e, con il sogno di Francesco, la confessione e il finale ultimo, si raggiunge finalmente una forma propria. Peccato perché invece la musica è da subito molto ragionata, riuscendo ad unire la forza e potenza delle opere degli anni di galera con l’alta qualità e finezza dimostrata già nel preludio dall’assolo di violoncello (forse un omaggio ad un altro grande musicista italiano in quel di Londra, dove fu data la prima di quest’opera) . Sapiente è il contrasto fra questi passaggi e quelli più volutamente di ispirazione popolare, ad esempio i cori dei masnadieri, che possiamo dire essere letteralmente “tagliati con l’accetta” ricorrendo a ritmi popolari come il valzer (vedere Giovanna d’Arco), inaugurando uno stile frequente anche nei successivi capolavori verdiani.
Tuttavia a Londra tutto ciò passava in secondo piano davanti l’attesa di ascoltare l’usignolo svedese Jenny Lind, una Sutherland dei suoi tempi. Certo è che un soprano di coloratura dai trilli fenomenali non si addiceva molto al carattere drammatico e sempre infelice dell’Amalia schilleriana, protagonista di quest’opera. Ancora una volta Verdi dovette dunque accontentare il suo pubblico con scattanti cabalette di grande virtuosismo a discapito del “mood” dell’opera. A cogliere la pesante eredità della Lind abbiamo ascoltato a Parma Aurelia Florian, artista rumena e stella dell’opera di Bucarest. Peccato il ruolo non fosse completamente adatto alle sue corde: se infatti gli aspetti patetici erano indubbiamente ben realizzati, la parte virtuosistica che completa il personaggio era del tutto sfocata e priva di incisività. “Tu del mio Carlo al seno” all’inizio del secondo atto è stato da lei cantato con molta perizia e in piena sintonia con la situazione funèbre, mentre poco dopo con l’annuncio di Arminio e il completo cambio di traiettoria della musica ecco tutti i problemi della Florian nella stretta “Carlo vive? O caro accento”. Un successo quindi solo parziale.

A causa di una indisposizione di Stefano la Colla, che doveva cantare Carlo nella recita da noi recensita, il ruolo è tornato a Roberto Aronica, che ha dovuto così fare a meno del suo turno di riposo, svolgendo tutte le recite con grande coraggio. Perdonabile dunque un po’ di affaticamento nelle lunghe frasi, senza che questo potesse mettere in discussione l’ottima impostazione della voce e l’efficace squillo. Carlo è un ruolo arduo, affetto per quasi tutta l’opera da una sorta di “solipsismo” nel quale deve spesso fronteggiare l’immenso volume dei masnadieri, sovrastandolo con voce stentorea nelle sue bravate e immediati giuramenti (vedi finale atto terzo).
Molto bravo Damiano Salerno, siracusano classe 1972, che vanta una buona carriera sia nei ruoli comici (ha studiato con Dara) che nei ruoli drammatici come quello di Francesco, che ha reso molto bene. Anche questo personaggio, come il fratello, pare agire quasi sempre immerso in una profonda solitudine: ottima la realizzazione dell’incubo nel quarto atto, con una voce scura e uniforme che ben contrastava con la voce più profonda del prete protestante (il basso Giovanni Battista Parodi: corretto ma nulla più).
Forse il migliore di tutti per morbidezza nell’emissione e grande presenza scenica è stato in ogni caso il basso Mika Kares, di origine finlandese (patria di grandi bassi). Esperto anche di ruoli wagneriani e ospite fisso al Savolinna Opera Festival, ha cantato un ruolo forse un po’ piccolo per le sue capacità. Si è potuto così totalmente concentrare sui dettagli, realizzando un anziano Massimiliano affaticato, morente e molto struggente. Anche alla prima londinese ci fu un grandissimo in questo ruolo: Luigi Lablache, che tutti faceva piangere nell’assolo “Un ignoto,tre lune saranno”.
Direzione compatta di Francesco Ivan Ciampa, servito da un’orchestra (la Filarmonica Arturo Toscanini) duttile e competente. Coro che non ha bisogno di presentazioni, bravissima in particolare la parte maschile, che ha gran gioco nell’economia dell’opera. Come dicevamo cori giustamente “rozzi”, per rendere al meglio la parte più popolare della masnada: plauso quindi al coro del Teatro Regio di Parma e al suo direttore Martino Faggiani per avere realizzato piccoli gioielli come il valzer villereccio della Parte Terza.
Due parole infine sul regista Leo Muscato, che attendiamo a fine novembre alla Fenice con l’immensa Africaine (di cui vi faremo resoconto). Ha realizzato uno spettacolo di rara uniformità, rendendo, grazie alle scene di Federica Parolini, l’impressione che tutto fosse avvolto da un bosco oscuro dove la luce non può penetrare e caricando la vicenda di una certa cupezza in linea con il libretto, nel quale tutti i personaggi hanno già il destino segnato fin dalla prima nota. Pochi elementi scenici facevano ricadere tutta l’importanza sulle luci, realizzate molto bene da Alessandro Verazzi. Lo spettacolo ha inoltre saggiamente ovviato ai già citati problemi di libretto con due particolari: prima Amalia scappa nel secondo atto con la pistola che ha sottratto a Francesco e ricompare nel terzo nel medesimo atteggiamento, dando continuità ai due atti, poi in maniera analoga, alla fine della confessione di Francesco, il baritono invece di uscire di scena si suicida, di modo che le parole della scena successiva (che dovrebbe essere ambientata in altro luogo) sono invece rivolte da Massimiliano proprio al cadavere del figlio. Aspetti importanti che migliorano una vicenda altrimenti non del tutto uniforme drammaturgicamente.
Chiudiamo ricordando che da gennaio inizia la nuova stagione del Regio, il cui spettacolo più’ importante e interessante sarà secondo noi I Pescatori di perle, di cui vi daremo una pronta recensione.
Fabio Tranchida
PS: un piccolo aneddoto: la regina Vittoria presente alla prima dell’opera non nascose una preferenza verso I Briganti di Saverio Mercadante, opera realizzata sullo stesso soggetto schilleriano. Siamo proprio curiosi di ascoltarla in qualche moderno allestimento per valutare con i nostri orecchi. Il nostro desiderio non è peregrino, perché i primi quattro interpreti dell’opera a Parigi furono i magnifici 4 dei Puritani e Marin Faliero: Grisi, Rubini, Tamburini e Lablache!