S. Rachmaninov: Concerto per pianoforte e orchestra no.3 in re minore op.30
I. Stravinskij: Scherzo Fantastique
I. Stravinskij: Le Sacré du Printemps
Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
Pianoforte: Luca Buratto
Direttore: Jader Bignamini
Auditorium strapieno per il proseguo del percorso in terre russe attraverso il quale laVerdi sta guidando il suo pubblico in queste settimane. L’occasione galeotta è il ciclo dei concerti di Rachmaninov, con l’appuntamento focale del Terzo, probabilmente il più celebre, che cade proprio questa settimana. A completare l’attrattiva della serata c’è Stravinsky, con il piacevole Scherzo Fantastique ma soprattutto con l’’inossidabile Sagra della Primavera. Dirige, come spesso è accaduto e accadrà questa stagione, il maestro Jader Bignamini, che prosegue così “in casa” la sua palestra di lusso nel repertorio sinfonico. Anche al pianoforte peraltro c’è un autoctono emergente, si tratta di Luca Buratto, milanese poco più che ventenne ma già molto attivo nella città (al Dal Verme e al Conservatorio principalmente).
Cominciamo dunque parlando del Concerto n.3 in re minore, opera della quale è superfluo ricordare le caratteristiche. Luca Buratto è una piacevole scoperta in un brano evidentemente disegnato a tavolino per mettere alla prova le doti dei suoi esecutori. Non può che essere lui il protagonista di questa prima metà della serata, mentre Jader Bignamini con oculatezza e umiltà tiene le redini dell’orchestra per evitare di coprire il solista e di invadere il suo fraseggio. Contemporaneamente il direttore è molto abile anche nel non scoprire i suoi, non lasciando cioè mai i singoli strumenti privi di sostegno armonico e quindi soggetti ad elevato rischio nell’intonazione. Il suono fluisce quindi dall’orchestra con grande naturalezza, generalmente favorendo il legato e una certa opacità che permette al pianoforte di risaltare come un primo piano a fuoco risalterebbe su uno sfondo telato. Le mani di Buratto (specialmente la destra) sono di notevole agilità ed eleganza nel tocco rapido, sgranando molto bene i suoni ornamentali (splendidi i trilli acuti) in un colore molto chiaro e gestendo con decisione ma senza pesantezza i ribattuti. È un suono che ispira spontaneità e si addice alla sua gioventù, risultando sempre piuttosto piacevole e brillante. Il pericolo di poca incisività è scongiurato poi da una energica cadenza del primo movimento in cui Buratto tira fuori le unghie e sfrutta le dinamiche. Manca forse una marcata caratterizzazione stilistica, una componente interpretativa e introspettiva che superi la lucentezza della bella superficie scintillante di semicrome e scavi il brano anche in tutte le dinamiche e agogiche del tocco profondo. Ne fa parzialmente le spese la varietà di timbri, che anche in orchestra tendono ad una certa monotonia inusuale per Bignamini e per laVerdi ( se Buratto soffre di scarsa morbidezza, paradossalmente l’orchestra ne patisce invece l’eccesso). Su questo fronte si migliora comunque nettamente nel secondo movimento, dove il suono orchestrale si stende come una luce soffusa ed acquietante. Il meglio arriva in ogni caso nel terzo, dove la sincronia perfetta (frutto del gesto sempre più preciso ed essenziale di Bignamini e dell’evidente musicalità di Buratto) permette di raggiungere livelli di brio trascinanti con frequenti rubati coordinati. L’entusiasmo del pubblico alla fine di questa prima parte è evidente, con un boato e svariati bravo che esplodono immediatamente dopo l’ultimo, strategico, accordo.

La seconda parte resta così tutta concentrata nella mani di Jader Bignamini, che per prima cosa si “scalda” ulteriormente con uno Scherzo Fantastique che dimostra i progressi fatti dalla sua ultima prova stravinskiana (un Jeu de Cartes nell’Aprile scorso): c’è anima, nervo e sostegno della scrittura nel suo gesto che prima era concentrato invece più sulla ricerca del suono modellato. Da una economia locale, del singolo momento, stiamo insomma passando ad una economia generale che tiene presente cosa è venuto prima e cosa verrà dopo. Certo non sarà poi questo il brano dove la maturazione interpretativa può portare i maggiori frutti, qui abbiamo a che fare con uno Stravinsky giovane e più che altro attento a dimostrare al suo maestro Rimsky-Korsakov quali virtuosismi orchestrali egli avesse in serbo. Tuttavia si percepisce la differenza nell’attenzione maggiore ai passaggi da una atmosfera all’altra, da un momento al successivo, mantenendo intanto tutte le conquiste già effettuate (lucentezza nel colore unita a morbidezza negli impasti). Quando dunque arriviamo alla Sagra della Primavera, che offre invece ampi margini interpretativi, la curiosità non può che essere alle stelle. E ci sorprende subito Bignamini con una lettura meditata, che fa sentire enormemente le cesure fra i diversi passaggi, enfatizzando il progressivo incalzare di un rituale sull’altro in un climax di crudeltà e cieca devozione all’annientamento. Non sempre l’orchestra riesce a rispondere a livelli di assoluta eccellenza, specialmente per quanto riguarda i contrattempi dei fiati, figli dell’evidente sadismo di Stravinsky nei confronti degli orchestrali. Molto bene invece nei passaggi più intensi tutti gli ottoni (trombe in primis) e il timpano di Viviana Mologni, dotata di energia straordinaria. Peccato si tendesse un po’ ad annegare questi momenti di acme in un fortissimo generalizzato con conseguente saturazione sonora. È questo forse l’ultimo vizio ancora rimasto a Bignamini, ma si deve anche considerare che qui, nella Sagra, una certa saturazione è comunque giustificabile data l’effettiva natura parossistica della composizione. Col progredire della perizia direttoriale i decibel vengono surrogati da più astute trovate timbriche, dinamiche e agogiche di cui già questa sera egli ha dato prova, specialmente per il rituale finale, che si è snodato con una logica inesorabile, come sotto l’attrazione di una forza di accelerazione gravitazionale a cui non ci si poteva sottrarre.
Nel complesso dunque un concerto che non ha mancato di stimolare il suo nutrito pubblico, offrendo lo spazio a nuove leve della musica tutta italiana (per non dire lombarda, dato che Bignamini è di Crema) che dimostrano di poter portare anche nuove idee nonostante i repertori siano più che battuti. Non c’è dubbio che il passaggio dalla Sagra sia a suo modo un passaggio inevitabilmente rituale per un direttore, e sentiremmo di poter dire che la prova è più che superata al di là di ogni ragionevole dubbio e opinione personale. Un gesto significativo per precisione ed essenzialità come quello sviluppato da Bignamini negli ultimi anni è una rarità, lontano dagli estri di tanti “prodigi” del podio che sono di fatto capaci di dirigere solo orchestre che già suonano benissimo da sole. La sua presenza mancherà certamente nei prossimi mesi (tornerà a Maggio per un concerto tutto straussiano) sul podio de laVerdi, che entra nel vivo della sua stagione del ventennale con i ritorni di Axelrod, Rilling e della direttrice Zhang Xian, nonché dell’atteso Chailly per l’Ottava di Mahler del 23 novembre.
Alberto Luchetti