Manrico:  Luciano Ganci
Leonora: Anna Kasyan
Conte: Alessandro Luongo
Azucena: Tea Demurshvili

Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Coro Lirico Terre Verdiane di Piacenza
Direttore: Nicola Paszkowski
Maestro del coro: Corrado Casati
Regia: Cristina Mazzavillani Muti

 

Lodevole l’iniziativa del Teatro Municipale di Piacenza di proporre, dopo un fastoso Don Carlo in 5 atti, l’intera trilogia popolare di Verdi in collaborazione con Ravenna Festival. Oltretutto in date ravvicinate come se fosse il “Ring” wagneriano. Un notevole impegno in effetti premiato da una notevolissima presenza di pubblico smanioso di immergersi in questo mare di musica così nota e allo stesso tempo così eccitante. Il Trovatore come le altre due opere della trilogia è una successione di melodie che scaturiscono come un fiume in piena senza lasciare respiro allo spettatore. Verdi sapeva come accontentare il suo pubblico, Verdi voleva soddisfare il suo pubblico, all’opposto di Wagner che pretendeva che fossero gli ascoltatori a venirgli incontro, meglio se prostrati dato che avevano a che fare con un “Erlöser”, un redentore. Due compositori eccelsi che hanno dunque raggiunto vette altissime su sentieri in gran parte indipendenti. Certamente, una serie di “tutti esauriti” come quelli di questa trilogia al Municipale sarebbe difficile da riprodurre con una quadrilogia wagneriana.

Se Rigoletto è eccelso per via di un libretto con una scansione drammatica originalissime, e se La Traviata ha il suo punto forte nel mettere in scena la stessa società degli anni ’50 dell’800, Il Trovatore potrebbe sembrare un passo indietro con un libretto che guarda  (rispetto agli altri) verso il passato. In effetti Cammarano non era malleabile nelle mani di Verdi quanto il sottomesso Piave, e spesso era addirittura il compositore a dover cedere alle richiesta del librettista, abile nel verseggiare (ci fornisce anche in questo libretto due termini rarissimi: “coltrice” e “strambasciato” a voi la sfida della ricerca) ma non altrettanto abile nell’originalità drammaturgica. La successione di tre arie all’inizio dell’opera fa capire quanto sia difficile carburare prima del terzetto in conclusione della prima parte. Le cose migliorano notevolmente nella seconda parte dove viene scolpita la figura fiammeggiante della zingara/strega (così in Gutiérrez): un ruolo modernissimo a cui Verdi teneva molto e vero cardine del’azione. Stranissimo peraltro il significato del suo nome, Azucena, in spagnolo: “giglio”. Un’altra curiosità: sia i versi di “Stride la vampa” che di “Il balen del suo sorriso” non sono stati composti da Cammarano, che era nel frattempo morto, ma da Leone Emanuele Bardare, che di fatto rese musicabile la prosa fornitagli dal compositore stesso. A Bardare toccò anche l’infelice compito di trasformare Rigoletto in Clara di Perth per passare il visto censura borbonico.

Cammarano termina il secondo atto con una stretta mai musicata da Verdi (pubblicata in appendice nel libretto critico di Ricordi insieme ad un’aria alternativa del conte per l’ultima parte e un finale più esteso a fine opera) che dimostra ancora una volta quanto il compositore rompa le forme musicali ormai sclerotiche nel terminare l’atto con quella magnifica ripetizione “Sei tu dal ciel disceso / O in ciel son io con te?”, di grande modernità. A pensarci già in Luisa Miller aveva eliminato la stretta e così farà ne La Traviata dando spazio solo ai concertati lenti, più drammatici ed introspettivi. Terza parte di fulminante bellezza: dopo il coro “Squilli, echeggi” nella versione francese sono inseriti 30 minuti di balletti che in parte citano il coro degli zingari della seconda parte (mai Verdi aveva contaminato i ballabili con musica del resto dell’opera e mai lo farà in seguito). Interessante notare che la coppia di amanti non è mai beneficiata di alcun duetto d’amore ma se guardiamo con attenzione il tempo di mezzo tra l’aria “Ah si, ben mio, coll’essere” e la cabaletta celeberrima “Di quella pira” è proprio un duetto in miniatura, nonché unico momento di felicità di tutta l’opera. Due considerazioni sulla musica del cabaletta: prima, Verdi aveva sicuramente sentito l’aria di Leicester nella Stuarda donizettiana che nella versione milanese inizia proprio come “Di quella pira”; seconda, esiste un’aria verdiana su questo modello tagliata in una foggia più moderna che è uno dei brani meno conosciuti del Verdi maturo nonostante sia superiore in tutto alla cabaletta in questione. Si tratta dell’aria N.29 “Qual sangue sparsi! Orrore!” di Alvaro in La Forza del Destino (Don Alvaro era in effetti il titolo dell’opera alla sua prima italiana al Teatro Apollo di Roma) Ascoltate questa difficilissima aria e capirete come in solo 5 minuti Verdi arrivi a risultati eccelsi con pochi mezzi.

 

Forse vi domandate perché non sia diventata famosa quanto l’aria della pira: Verdi la eliminò del terzo atto de La Forza del Destino poiché in posizione scomoda per il tenore dopo un lunghissimo terzo atto. La Forza in effetti era un’opera che subito dopo la prima non girava come si diceva allora. Verdi che come dicevamo era attento al suo pubblico pensò quindi ad una revisione che ebbe poi la prima alla Scala nel 1869. L’aria era sta cucita su misura per le straordinarie doti di Enrico Tamberlick. Capolavoro assoluto infine la quarta parte con l’aria di Leonora interrotta dal Miserere e dagli interventi del Trovatore dalla torre (torre realmente esistente secondo la tradizione a Salamanca nel palazzo dell’Aliaferia). Tutto il finale è un tour de force poiché gli eventi sono tutti incatenati e i quattro personaggi vengono travolti uno ad uno dal fato. Questo finale rispecchia l’idea che Verdi esprimeva nelle lettere di quegli anni sostenendo l’abolizione di arie duetti e terzetti . Ci riuscì in maniera definitiva solo con Falstaff.

Veniamo all’analisi della rappresentazione piacentina. Sicuramente la migliore interpretazione sia vocale e scenica è quella della zingara Tea Demurshvili cantante georgiana di notevole volume e grande precisione. Dopo l’importante “Stride la vampa” ecco che le sue doti di attrice si sono mostrate nel moderno racconto “Condotta ell’era in ceppi”, difficilissimo da cantare proprio per il continuo cambio di registro e per l’aderenza alla parola drammatica (Verdi avrebbe detto parola scenica!). Notevole anche il terzetto “Deh rallentate, o barbari” con un impeto quasi feroce. Appena un gradino sotto la prova del giovane baritono Alessandro Luongo (da noi applauditissimo nell’Ernani  del Circuito Lombardo). Una prova certamente molto positiva, calda la voce, facile alla salita dei numerosi Fa acuti e solo in alcuni punti (come in “Ora per ma fatale”) si è evidenziata un po’ di stanchezza. La sua presenza il giorno precedente al Teatro Reale di Stoccolma per una imprevista sostituzione lo giustifica di queste flessioni. Forse, in ogni caso, non è ancora il momento per ruoli così impegnativi, infatti ci ha riferito che i prossimi impegni saranno  ruoli più legger come Malatesta. Nel ruolo di Manrico abbiamo trovato la sicura linea vocale del promettente Luciano Ganci, corretto in tutta l’opera, forse solo poco fantasioso. Anche “Di quella pira” per quanto completa della fondamentale ripetizione è risultata solo un esercizio, e non ha accontentato neanche i maniaci dei Do di petto (la scelta è stata forse qui del direttore, probabilmente di scuola mutiana). Punto debole della serata invece è stata purtroppo la Leonora, anche lei come Azucena di origini georgiane. La voce di Anna Kasyan infatti tendeva a sbiancarsi mano a mano che la linea vocale saliva, risultando non sicura negli acuti. La difficoltà nei passaggi di coloratura è stata poi alquanto evidente e ne dà testimonianza anche la mancanza delle riprese delle cabalette delle sue due arie (un notevole danno alla struttura architettonica musicale). Fra i comprimari citiamo Luca Dall’Amico in un Ferrando di grande professionalità: ha centrato in pieno il clima cupo della sua introduzione nella prima parte.

A rovinare tutto purtroppo sono intervenute le inutili e ripetitive proiezioni di luoghi di Ravenna (da dove viene lo spettacolo) della moglie di Muti, Cristina Mazzavillani. Tecnica già utilizzata da lei nell’altrettanto pessima opera “I Capuleti e Montecchi” di alcuni anni fa. Le proiezioni permetterebbero varietà, sovrapposizioni e colori cangianti, invece la regista ci snerva con immagini statiche ripetitive senza connessione con gli ambienti dell’opera e cosa ben più grave senza permettere di vedere i cantanti. Durante tutte le parti del dramma sono stati molti gli interventi del pubblico spazientito che urlava di alzare il sipario e lasciar vedere i cantanti. Per rifarci un po’ gli occhi suggeriamo la regia di qualche anno fa della Scala con una ricchissima produzione di Hugo De Ana, regia non più ripresa nonostante l’altissimo costo. Non è chiaro perché la Scala abbia ripreso numerose volte fino alla sfinimento il pur bello Rigoletto e mai questo Trovatore e la Forza del Destino di De Ana. Davvero incredibile. Vedremo se sarà il caso per il Trovatore che andrà in scena l’anno prossimo.

La regista attorniata dal cast
La regista attorniata dal cast

Se la regia della Mazzavillani fosse stata appena più discreta avremmo indubbiamente promosso appieno quest’opera capolavoro assoluto di Verdi che ha avuto in questa edizione formidabili voci e soprattutto un direttore, Nicola Paszkowski, con saldo polso che ha concertato benissimo con ottimi colori e senso del ritmo così verace e sanguigno. Decisamente di qualità l’orchestra Giovanile Cherubini, una delle più interessanti realtà italiane.

PS: Ultima curiosità: v’è un madornale anacronismo se pensiamo che i trovatori, nel 1400 (l’epoca dell’opera e del dramma di Gutièrrez), non esistevano più da almeno 200 anni e certo non si accompagnavano con il liuto. Ma certo queste sono cose trascurabili in cui le assurdità varie ma concorrono tutte ad aumentare la drammaticità della vicenda. Assurdità paradigmatiche tanto che i fratelli Marx l’hanno presa a paradigma nel loro fortunatissimo film “A Night at the Opera”. Da recuperare!

Fabio Tranchida e Don Nuno de Artal

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