A. Borodin: Danze polovesiane da Il Principe Igor
N. Campogrande: R (Un ritratto per pianoforte e orchestra)
S. Rachmaninov: Variazioni – Rapsodia su un tema di Paganini op.43
I. Stravinskij: Jeu de Cartes

Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano
Direttore: Jader Bignamini
Pianoforte: Lilya Zilberstein

 

Serata “di gala”, musicalmente parlando, questa sera per l’Auditorium della musica di Milano. L’orchestra Verdi presenta infatti la prima assoluta di “R (Un ritratto per pianoforte e orchestra)“, ultima fatica di Nicola Campogrande. Per portare a termine questo ritratto serviva un grande nome del pianismo internazionale, ed ecco Lilya Zilberstein, sulla quale viene poi modellato il resto del programma con una delle sue specialità, Rachmaninov, con le Variazioni-Rapsodia su un tema di Paganini, e la cornice di altri due pezzi russi per la sola orchestra: le Danze polovesiane dal Principe Igor di Borodin e il Jeu de cartes di Stravinskij. A dirigere e fare gli onori di casa Jader Bignamini, sempre più al centro dei momenti più importanti per laVerdi.

Transiteremo rapidamente dalle Danze polovesiane, che ci confermano la crescita continua di Jader Bignamini, capace di tirare fuori dall’orchestra che conosce tanto bene un suono pulito ed intenso, maturando una gestualità precisa e intelligibile, che non si perde in gesti che confonderebbero soltanto gli orchestrali. Non creano dunque problemi le insidie ritmiche della brillante ma non del tutto ortodossa musica di Borodin, mentre ci si può permettere anche alcune finezze di fraseggio quali dei ritenuti nei punti di volta delle melodie per enfatizzare il tema principale e i suoi ricorsi.

Lilya Zilberstein
Lilya Zilberstein

Consideriamolo allora un succulento antipasto prima del piatto più “forte” della serata, con Lilya Zilberstein che sale sul palco assieme a svariati nuovi strumentisti (specialmente fra le percussioni) per dare alla luce “R”. Titolo misterioso, una iniziale dietro cui, ci informa il compositore, si nasconde un ritratto, il ritratto di una donna, su commissione dell’altrettanto misterioso fidanzato. Azzeccato dunque che vi sia una pianista sullo sgabello, dato che pare proprio sia il pianoforte a ritrarre i dettagli più definiti e gli aspetti più intimi, restituendo certamente l’immagine di una donna attiva ed energica, perfettamente conscia di ciò che fa, quale certamente è la Zilberstein stessa col suo tocco sempre deciso e preciso. La composizione si divide in cinque movimenti (il vibrante Home, il profondo Occhi, la cavalcata dialettica Conquiste, la serenata Notte e l’estatico Finale) in cui l’orchestra copre una grande varietà di stili mescolati con eclettismo e sensibilità che ricordano la lezione mahleriana. A questa si somma un lavoro sulla poliritmia molto marcato e frenetico che differenzia molto l’organico dal pianoforte, che a sua volta si distingue anche per una maggior libertà rispetto all’ambiente tonale (per lo più rispettato dall’orchestra) con sonorità che ricordano la scrittura impressionistica da Debussy in avanti. Si condensano insomma molte delle esperienze più riuscite del secolo scorso, forse con un eccesso di sovrapposizioni stilistiche che non sempre combaciano fra loro. La ricerca pare insomma volta più alla ricerca del suono verticale che del “discorso” musicale orizzontale, come d’altronde è frequente in brani “a programma” e di durata ridotta. L’ascolto risulta in definitiva abbastanza facilitato, improntato all’effetto diretto ed immediatamente comunicativo e privo di concettualismi, seppur con una tendenza alla saturazione e all’eccesso. Applausi convinti alla conclusione per interprete e compositore, richiamati in scena svariate volte. Il destinatario è soprattutto Nicola Campogrande, dato che la presenza della Zilberstein meritava un’altra performance e così avviene. Si attinge da Rachmaninov e nello specifico alle variazioni-rapsodia da Paganini, che ella aveva eseguito per laVerdi già nella stagione 1998-99. La scrittura particolare di questa composizione, nella quale il pianoforte deve “imitare” i virtuosismi del violino indemoniato, è un ideale terreno fertile per la mano della Zilberstein. La totale padronanza della parte le permette infatti di poterla ricamare in ogni dettaglio, dedicandosi quindi a caratterizzare ogni variazione. In questo sfoggio di duttilità e polimorfismo rimangono in ogni caso evidenti le caratteristiche di precisione e nettezza dell’interprete, capace di dare energia senza “pestare” sui tasti e dosando il pedale per arrotondare i singoli suoni senza mescolarli, così come un violino per l’appunto. Il restante lo fa lo spiccato senso musicale che permette di dare ad un testo scritto quasi un secolo fa il gusto dell’improvvisazione estemporanea (anche questo è perfettamente paganiniano). L’orchestra fa da sparring partner, mantenendosi quasi costantemente in secondo piano (è questo che differenzia poi le variazioni dai concerti dello stesso Rachmaninov) e giocando sulla timbrica (lugubre prima, morbidissima poi) e sugli effetti, con un occhio costante a non perdere la coordinazione con la solista che conduce il discorso. Menzione per i corni e gli ottoni in genere, ottimi nei non facili compiti di atmosfera che Rachmaninov chiede loro. Nonostante i tanti applausi finali, dopo uno straordinario accumulo di tensione drammatica, la Zilberstein non ha concesso bis, lasciando fluire il concerto verso l’ultima parte.

Sul palco resta dunque solo Bignamini, con un’orchestra anch’essa parzialmente ridotta, dato che si deve eseguire uno Stravinskij “neoclassico” quale è quello del Jeu de cartes. In un programma che alterna il tradizionalismo (Borodin) con l’avanguardia di una prima assoluta contemporanea, la riflessione retrospettiva di Stravinskij è senza dubbio al proprio posto. Peccato questa sera non si siano concretizzate completamente le condizioni affinché non si spezzi l’equilibrio fragile del suo stile maturo. La direzione di Bignamini è riuscita a curare molto bene il suono, ad esempio il luminoso tema introduttivo di tutti e tre i movimenti (ovvero le tre “mani” della partita) e con particolare successo nella trattazione del timpano perfettamente impastato nell’insieme. Non ha tuttavia saputo mantenere sempre quell’apollineità e leggerezza che dovrebbe conservare l’astrattezza delle forme e degli stilemi esposti dalla musica. Se infatti un “neoclassicismo” ha un senso, esso dovrebbe allinearsi alle parole che concludono il capolavoro “neoclassico” di Goethe, il Faust parte seconda: “tutto ciò che passa è solo un simbolo”. E la musica, per sua stessa natura, deve “passare” non appena viene eseguita, e scomparire, lasciando solo una traccia nell’ascoltatore, una traccia che deve divenire simbolo, astrazione. Non dimentichiamo poi che qui siamo di fronte a musica per balletto, che a sua volta reca con sé la sua dose di astrattezza. Solo in ambiente rarefatto, omogeneo e idealizzato diventa significativo in questo senso il lavoro di elaborazione tematica e di citazione (Rossini, Beethoven, Tchaikovskij, Ravel, ecc) compiuto da Stravinskij. Abbiamo ravvisato invece un eccesso di “sangue” e drammaticità, ovvero un eccesso di variabilità nei tempi da una parte e un eccesso di concretezza e densità dall’altra. Questo non toglie le ottime qualità di Bignamini come concertatore attento all’effettistica e al gioco di contrasti e tinte forti, lasciando tuttavia un margine di miglioramento invece nell’interpretazione speculativa. Margine che ovviamente speriamo e confidiamo possa essere colmato continuando a confrontarsi con la sfida posta da questi grandi capolavori mai scontati.

 

Alberto Luchetti