L. van Beethoven: Sonata n. 19 in sol minore op. 49 n. 1
L. van Beethoven: Sonata n. 20 in sol maggiore op. 49 n. 2
L. van Beethoven: Sonata n. 11 in si bemolle maggiore op. 22
L. van Beethoven: Sonata n. 12 in la bemolle maggiore op. 26
L. van Beethoven: Sonata n. 13 in mi bemolle maggiore op. 27 n. 1
L. van Beethoven: Sonata n. 14 in do diesis minore op. 27 n. 2
L. van Beethoven: Sonata n. 15 in re maggiore op. 28

Si presenta curiosamente, Andràs Schiff, per il suo terzo concerto dell’integrale delle sonate per pianoforte di Beethoven. Si presenta con un messaggio, letto dal padrone di casa Antonio Magnocavallo, che invita il pubblico ad una particolare attenzione ai suoni molesti (tossiti e suonerie su tutti) durante il concerto dati i precedenti. Ennesimo bel riconoscimento per il pubblico italiano. Smaltita la reprimenda, la serata ha potuto proseguire sotto i migliori auspici con una lodevole prova del protagonista e la consueta risposta appassionata di un vasto pubblico (sala Verdi da 1600 posti quasi gremita).

Una prima particolarità di questa integrale è l’uso del doppio pianoforte da alternare secondo le esigenze della sonata: un classico Bösendorfer a 88 tasti ed un più filologico Bechstein con un buon paio di ottave in meno. Non è stato in verità chiarissimo se fosse un criterio puramente filologico a guidare la scelta dello strumento (in ogni caso moderno), piuttosto è parsa essere una scelta di timbrica e sonorità oltre che chiaramente di estensione richiesta dal brano. L’alternanza è in ogni caso interessante per comprendere più a fondo le capacità dell’esecutore su diversi supporti, che hanno esaltato la capacità di Schiff di adattare tocco e uso dei pedali secondo necessità. Senz’altro filologica è stata invece la scelta di eseguire le sonate in ordine di composizione e non di numero d’opera, così da iniziare con le due brevi sonate in sol (minore e maggiore) che formano l’op.49 per poi riprendere il filo dalla sonata n.11, in sib maggiore op.22 e proseguire fino alla n.15 op.28, nota come “Pastorale”. Una bella fetta di sviluppo dello stile beethoveniano in piena fase di maturazione fino alle porte dei primi capolavori sonatistici.

Le caratteristiche di Schiff sono sempre più familiari al pubblico milanese della Società del Quartetto di cui è spesso ospite e le riscontriamo tutte qui: approccio metodico nella scelta dei tempi e quasi ascetico nelle sonorità semplici e molto limpide, con melodie scandite ed armonie evidenziate. Rinuncia dunque ad ogni esibizione virtuosistica o a quei vezzi da gran concerto romantico che sarebbero del tutto fuori luogo per le sonate di Beethoven, per di più di questo periodo. Ci riferiamo ad amenità quali l’abuso dei pedali, l’enfasi immotivata nelle riprese, i gesti plateali e le pause esagerate fra frasi e movimenti per ostentare introspezione (certificandone così invece l’assenza). Già questo è un fattore a favore di Schiff, che si affida totalmente al testo di Beethoven (forse con solo una piccola variazione ornamentale in più nella sonata in sol maggiore) facendolo parlare nei suoi tempi e coi suoi stilemi senza forzare la mano oltre quella perfezione ed equilibrio di forma che è il pianismo beethoveniano. Sono rari i rubati dunque, rari i fff, l’espressività è tutta restituita alla plastica dei temi esposti, sviluppati e ripresi. Si gioca tutto sulla rielaborazione di piccoli incisi, di cellule melodiche insipide che nella ripetizione differenziata diventano perle di significato e di bellezza. E tutto questo, che in Beethoven c’è ed è la base della sua poetica, deve essere restituito da un interprete che sia all’altezza del compito e non indulga in eccessi di romanticismo che dovrebbero forse compensare carenze espressive del classico. Fondamentale è invece l’uso di tutte le gradazioni dinamiche dal mf al ppp, spesso con una resa più ovattata e delicata del tema alla sua seconda esposizione, così come fondamentale è la caratterizzazione attraverso l’accentazione della frase, molto marcata specialmente nei rondò e negli scherzi, che risultano delle perle di stile. Va da sé che anche l’Andante con variazioni della sonata in lab maggiore è stato uno dei momenti più riusciti, il che ci fa attendere con ansia l’arrivo delle grandi variazioni dell’ultimo periodo.

Secondo aspetto encomiabile nella lettura di Schiff è l’attenzione ad adeguare l’esecuzione alla progressione storica dei brani eseguiti. Se le prime sonate sono rigorosamente sul Bechstein e con rilievo moderatissimo della mano sinistra nei bassi, sempre più il “peso” si fa sentire mano a mano che ci si avvicina alle più tarde, che pure non sempre sfruttano le ottave e le corde in più del Bösendorfer. L’esempio dell’Adagio sostenuto dalla sonata in do diesis minore (celebre come “Chiaro di luna”) è eloquente: siamo sul Bechstein, eppure un uso esteso del pedale e l’intensità del tocco creano una densità sonora che a tratti è fin eccessiva rispetto alla linea interpretativa fin qui assunta. Molto meglio la “Pastorale” che comprende l’estensione dell’uso della tastiera operata da Beethoven in quegli anni (ed eccoci costretti tornare sul Bösendorfer) senza farne uno Schumann ante litteram ma mantenendo quella leggerezza apollinea delle melodie a chiamata e risposta che creano tanta più atmosfera che infiniti riverberi di pedale e timbri impastati.

Il libro di Schiff
Il libro di Schiff

Esecuzione vibrante dunque, non facile, non di impatto grossolano, ma ricca di approfondimento (ricordiamo che Schiff ha pubblicato in questi giorni proprio una conversazione sulle sonate di Beethoven) e spunti anche per l’ascoltatore, che attraverso il medium del pianista si trova a confronto diretto con l’autore stesso, rivestito di una nuova veste che non ne deve tradire le forme. Per tutto ciò che abbiamo detto finora possiamo comprendere come l’attesa per i prossimi appuntamenti con l’integrale sia grande. Anche perché ci è parso che il meglio di sé Schiff lo dia proprio dove c’è materiale tematico da rielaborare e discorso musicale da costruire. Tanto meglio dunque quanto più si prende il largo dalle sterili (per la poetica precipua di Beethoven) reminiscenze haydniane-mozartiane e quanto più si evitano le pur amene “quasi una fantasia” dell’op27, decisamente fra le cose meno entusiasmanti della serata. Tanto meglio dunque quanto più ci avviciniamo alla maturità di Beethoven, e la “Pastorale” è il primo assaggio, ma ancora devono venire i grandi “testi” che mettano alla prova la profondità dell’interprete. Purtroppo si dovrà attendere la prossima stagione, accontentandoci nel frattempo di seguire il Quartetto di Cremona nella sua integrale dei quartetti d’archi.

Nel contempo Schiff ci saluta con due bis molto diversi che incorniciano l’esperienza beethoveniana: uno Scarlatti delizioso per senso della musicalità nel fraseggio e nel rimandarsi preciso e incalzante fra le voci ed uno Schubert che è all’opposto tutto accordi arpeggiati ed atmosfere di sospensione nell’indeterminato. Prova di versatilità per strappare gli ultimi applausi in attesa del prossimo ritorno.

Alberto Luchetti