Orchestra e coro sinfonici di Milano Giuseppe Verdi

Direttore: Zhang Xian
Direttore del coro: Erina Gambarini
Tenore: Alexander Kaimbacher
Basso: Thomas Tatzl
Soprano: Laura Aikin
Mezzosoprano:  Eva Vogel

In principio (ora e sempre) fu Vienna, e la tradizione di salutare il nuovo anno con l’omaggio ai classici è sempre più una piacevole abitudine, una ricorrenza che lega ogni nuovo inizio ad una ciclicità radicata nella parte migliore del nostro passato. Anche Milano ha la sua tradizione musicale di capodanno, ed il merito è dell’orchestra e del coro sinfonico Giuseppe Verdi, che ripropone ormai da anni, il primo gennaio, quello che è forse il brano più rappresentativo della musica occidentale: la Nona sinfonia di Beethoven.

Sul podio de laVerdi non poteva mancare la direttrice musicale, Zhang Xian, un ritorno dato che la recente maternità l’ha tenuta lontana dal suo posto negli ultimi mesi. L’esordio dell’esecuzione, apparentemente incerto, poteva inizialmente far pensare ad un po’ di ruggine nel feeling fra la bacchetta e la “sua” orchestra, ma col progredire dell’esposizione, e soprattutto con sviluppo e ripresa, l’effetto si è rivelato voluto e ricercato. Se l’inizio è un primo passo in una atmosfera rarefatta (la quinta vuota), è perfettamente coerente che segua una metamorfosi magmatica dei temi appena accennati e subito travolti in contrappunti e fugati. Sarà dunque solo nella conclusione che il tutto potrà prendere quella forma e plasticità nella quale forse ingenuamente si usa limitare la poetica di Beethoven. La Xian, che si è dimostrata in questi anni una appassionata studiosa e filologa del sinfonismo viennese (ricordiamo la terza di Beethoven eseguita secondo la revisione mahleriana la stagione scorsa), pare ricalcare piuttosto la teoria di Adorno, secondo cui Beethoven (soprattutto nella sua fase “classica”, che culmina nella Nona) è essenzialmente musicista dialettico, hegeliano. Per Hegel l’inizio è proprio il momento più debole, più vago ed indifferenziato, mentre nell’opposizione dinamica prende vita la grande struttura, netta poiché articolata e complessa, e perciò certa di sé solo in quanto risultato. Siamo insomma molto lontani dalla grazia innata di Mozart, qui è doveroso calarsi nello sforzo, nella tensione di un mondo dove tutto è sempre da riconquistare e da riaffermare. Anche la lettura del secondo movimento ci è parsa convincente in questo senso, facendo della geniale invenzione ritmica di Beethoven l’espressione di un frenetico atletismo giovanile, tanto esplosivo quanto incapace di trovare l’uscita dal suo dimenarsi, ed anzi sempre più ansioso proprio in quanto questo risultato sfugge. L’attenzione è quindi canalizzata in quei momenti in cui la corsa si ferma per un istante ed una oasi di quiete potrebbe aprirsi, per poi sistematicamente ripiombare nel tumulto, ricordando schemi drammaturgici cari al Goethe del Wilhelm Meister. Per quell’oasi infatti bisogna passare attraverso tanto i Lehrjahre quanto i Wanderjahre, bisogna lasciar sfogare il fuoco, che si nega nel suo stesso consumarsi, e attendere l’aprirsi dell’Adagio contemplativo al diradarsi del fumo. Questo celebre movimento più meditativo è stato tuttavia probabilmente la parte meno convincente del concerto, non tanto per sbavature esecutive quanto per il tempo decisamente spedito. Certamente l’andatura sostenuta è una legittima scelta del direttore, non è il rispetto di una prassi esecutiva che ci lascia qualche dubbio a riguardo, quanto piuttosto ci pare che sia mancata così la coerenza con la linea interpretativa identificata fin qui, che avrebbe fatto immaginare una più netta opposizione dialettica fra movimento veloce e lento. O quantomeno ci saremmo aspettati anche qui uno sviluppo interno, una progressiva piega riflessiva ed una cristallizzazione dei timbri che invece non si è mai materializzata nemmeno nell’epifania finale.

L'orchestra laVerdi al completo
L’orchestra laVerdi al completo nella recente “trasferta” alla Scala

 Spariscono comunque rapidamente gli scetticismi con l’attacco, immediato, del quarto movimento. Violoncelli e contrabbassi sono una lama che squarcia e nega categoricamente i tentativi e i ricordi degli altri movimenti per spegnerli, in bellissimi diminuendo, nel vuoto nullificato. Qui la dialettica è sovrana, non si sfugge. I legni, già identificati timbricamente con l’Adagio, introducono il quarto tema, quello dell’inno alla gioia, il seme che proprio nel loro opposto, negli archi bassi, germoglia e fiorisce fino alle viole ed ai violini. Eppure Beethoven sapeva che questo non poteva ancora essere il punto d’arrivo, non solo per questa sinfonia ma per tutto il suo sinfonismo, poiché ancora non aveva fatto i conti con la voce. La Xian ancora una volta riesce ad esprimere il senso di incompletezza che ancora aleggia in questa fase: una perorazione del tema della gioia ancora tronfio, ostentato poiché insicuro. E’ infatti la voce a riportare la negazione in gioco, ma questa volta è negazione negata (“nicht diese Töne”), l’orchestra comincia a proliferare sotto la decisa invocazione del basso in uno splendido sottotesto vibrante. E’ il momento della vertigine, l’inizio di tutto ciò che è meraviglioso (ancora Goethe, che a sua volta cita Pascal). Il resto è storia della musica e genio assoluto, forse ineguagliabile, di cui tutto l’organico è chiamato a rendere testimonianza. Abbiamo detto dell’orchestra, rodata e decisamente all’altezza del compito, continuiamo col coro, in splendida forma ed encomiabile anche nei passaggi resi ardui dalla complessità dell’architettura polifonica, senza farsi mancare anche qualche virtuosismo nelle cadenze (complimenti dunque ad Erina Gambarini, storica maestra del coro de laVerdi ed ovviamente alla Xian per la concertazione). L’unica ombra, leggera, è nell’elevata età media della compagine maschile, che non premia particolarmente il risultato timbrico. Arriviamo quindi ai solisti, per la verità difficili da valutare in una condizione di tale coralità. Non particolarmente d’impatto il basso Thomas Tatzl, che non mostra difficoltà nelle fiorettature sulla parola “Freude” ma non pare avere il timbro adatto (e molto raro) per sortire l’effetto che questo passaggio dovrebbe avere: troppo chiara e baritonale la voce e contemporaneamente assente lo squillo che potrebbe compensare la poca scurezza. Interessante invece il tenore Alexander Kaimbacher, dotato di timbro piacevolissimo e svettante tanto nel recitativo quanto nell’assieme, mentre sarebbero perfezionabili i fiati un po’ corti (certo anche Beethoven non era proprio generoso da questo punto di vista, dato che scriveva per voce come per strumento!). Il soprano, Laura Aikin, conferma la prova positiva del recente Salmo 42 di Mendelssohn sullo stesso palco, seppur qui meno a suo agio in quanto la voce ha che fare con un’orchestra che le impedisce di stare nei moderati volumi d’emissione che le erano congeniali in Mendelssohn. Infine Eva Vogel (mezzosoprano) è stata indubbiamente precisa per intonazione e tempi, ma sarebbe necessario ascoltarla ulteriormente ed in pezzi anche non d’assieme per un giudizio accurato.

 In conclusione grande successo per tutti (in particolare per coro e direttrice) con l’intera sala gremita (come al solito con persone anche in piedi in galleria) immersa in applausi convinti ed avvinti. Il bis, come spesso accade con questa sinfonia, non poteva che essere una ripresa della stretta conclusiva. Giusto così: difficilmente si troverebbe qualcosa di diverso da aggiungere dopo tale vertice. Resta giusto il tempo per gli auguri di gruppo di tutta l’orchestra e il coro schierati sul palco, un “buon anno” che è il contraltare dell’inno alla gioia (überm Sternenzelt muß ein lieber Vater wohnen!) con cui, almeno come wishful thinking, iniziamo questo 2013 in musica.

Alberto Luchetti