Si narra che ai funerali di Richard Wagner alcuni suoi fedelissimi bavaresi abbiano omaggiato la bara del maestro con una corona di fiori recante la celebre citazione dal finale del Parsifal: “Erlösung dem Erlöser”, Redenzione al Redentore! Poetico, senza dubbio, l’aneddoto, ma anche un tantino disturbante, poiché il titolo di “Redentore”, nel mondo cristiano, non è esattamente vacante, un titolare c’è ed è anche piuttosto ingombrante. Se già era piuttosto azzardato l’uso dell’epiteto per Parsifal (che potrebbe pur sempre essere un Cristo bis), ancor più discutibile è aspettare la salvazione cristiana dall’artista Richard Wagner. Né si può imputare l’episodio del funerale al fanatismo di qualche devoto, è innegabile che Wagner stesso avesse fatto di tutto, nel corso della sua vita, per identificare se stesso (e la sua arte) con quella figura redentrice che egli è andato plasmando e cristianizzando nel corso degli anni come perno centrale della sua Gesamtkunstwerk. Se dovessimo infatti trovare un elemento veramente determinante per segnare il passaggio dalle opere poi rinnegate a quelle riconosciute, si potrebbe con molto successo usare proprio questa figura risolutiva dell’ “Erlöser”. In tutto il Rienzi ad esempio non si nomina nemmeno una volta questa parola (o la sua radice), mentre già in Der Fliegende Holländer essa è cruciale. E’ subito l’Olandese a citare l’Erlösung nel suo racconto: Dio lo ha condannato ad una pena tremenda, ma i suoi angeli gli hanno anche mostrato la porticina d’uscita, rispondente ovviamente al nome di Senta, che dal canto suo mette in chiaro (nella ballata che apre il secondo atto) di non aspettare altro che di poter essere quella Erlösung. Sarà poi proprio su quella parola che il duetto unirà i due. Il meccanismo è analogo a quello che troviamo poi nel successivo Tannhäuser, dove addirittura la nostra beneamata parola chiave finisce in pieno nel coro finale: “Das Gnade Wunder Heil! Erlösung war der Welt zuteil”. Anche qui la redenzione era peraltro stata prima anticipata (da Elisabeth e dai giovani pellegrini) come promessa ed attesa per il peccatore che si faceva penitente. Già è un accenno di cristianità in più. Arrivando al Lohengrin, la questione si arricchisce ulteriormente e prende la sua svolta decisiva. Nei primi due casi (Senta ed Elisabeth) non vi era infatti a rigore un Erlöser, ma una Erlöserin, una redentrice, che attendeva l’arrivo o il ritorno di un’anima perduta per redimerla attraverso il proprio sacrificio (il che, tutto sommato, risponde a certi canoni poetici del romanticismo usati anche nell’opera italiana, specialmente in Verdi). Ora invece è la donna, Elsa, a chiamare lo straniero misterioso che le si presenta davanti “Mein Erlöser!”. Spudorato dunque Wagner che per la prima volta toglie alla donna quel privilegio di anima bella ottocentesca e se lo arroga per il suo stesso sesso. Ancor più spudorato Wagner quando cominciamo a capire che dietro a Lohengrin, nemmeno tanto nascosto, c’è proprio lui in persona. Chi è Lohengrin? E’ l’uomo “estraneo”, mandato da una entità trascendente (il Graal) in soccorso ad un popolo in balia dell’inganno di falsi dei. Facciamo mente locale alla condizione di emarginazione ed incomprensione che il compositore viveva in quel periodo (l’estraneo), spostiamo il target di redenzione sulla questione musicale (lui in missione per la redenzione artistica graalistica) e la similitudine è fatta. Che la questione sia ormai irrimediabilmente legata ai crucci di Wagner stesso lo si nota anche da un ulteriore svolta: se prima il dramma, la tragedia, erano messe in atto con un gesto, l’immolazione finale, ora l’incompatibilità fra i due amanti avviene tutta attraverso il linguaggio, il chiedere o non chiedere. Potremmo in effetti immaginare senza sforzo lo stesso Wagner ragionare nei termini di Lohengrin: “io vengo a voi portandovi la salvezza, il cui potere risiede tutto nell’affidarsi con fede e non domandare nulla, e voi mi domandate la maggiore delle trivialità, qual’è il mio nome e chi sia mio padre?”. Chissà non ci sia qui un riflesso anche di quella questione personalissima di Wagner, il suo privatissimo imbarazzo riguardo alla figura del patrigno ebreo, col sospetto che fosse invece il suo vero padre. In ogni caso è chiaro che la progressiva “cristianizzazione” della redenzione si lega a doppio filo con una progressiva “wagnerizzazione” del redentore stesso. Da qui fino agli esiti del Parsifal il passo concettuale è ormai breve: la grossa rivoluzione contenutistica è già praticamente raggiunta col Lohengrin, col primo “Erlöser” fatto e finito.

La panoramica d’obbligo sulle opere della maturità che ci separano ancora dal Parsifal rivela ulteriormente il lavorio attorno al tema della redenzione. Del Tristan e dei Meistersinger basterà notare che in entrambi i casi si rinforza il ruolo da protagonista della figura maschile che conduce la messa in discussione del vecchio ordine in nome di una nuova realtà salvifica. Anche nel Ring, iniziato prima e finito dopo le due altre opere, il passaggio dal vecchio ordine dei Vala a quello degli uomini liberi e puri è articolato in una serie di passi intermedi in cui il principio femminile è sempre messo in movimento da quello maschile. Si inizia con la “Urmutter” (madre primigenia) Erda, il cui ordine viene sconvolto dalla violenza incestuosa del figlio Wotan. Da questo tabù violato nascono le valchirie, e specialmente Brunnhilde. Da un altro tabù violato, quello dell’amore fra due altri figli di Wotan (quindi fratello e sorella) nascerà invece Siegfried. Con questo duplice sgarro, Wotan ha implicitamente creato gli “eredi del mondo” (come recita il Leitmotiv), mettendo in movimento la futura redenzione cosmica. Il livello speculativo raggiunto da Wagner a questo punto della sua impresa artistica lo costringe a fare una distinzione da vero filosofo: Wotan ha iniziato tutto “concependo” l’idea di un mondo nuovo, ma non è lui stesso a poterlo realizzare (partorirlo) in quanto è e resta vincolato ai patti del vecchio mondo (iscritti sulla sua lancia). Il ruolo di Brunnhilde è proprio quello di mettere in atto la rivoluzione che egli ha potuto soltanto pensare. In particolare egli mai avrebbe voluto uccidere Siegfried infante, ma sarebbe stato costretto a farlo se Brunnhilde non gli si fosse “ribellata” (opposta cioè al suo potere formale, assecondando invece il suo volere sostanziale, si noti la scissione schopenhaueriana fra volontà e rappresentazione). Salvare Siegfried è quindi conservare l’esistenza di un individuo libero dalla paura, che era la legge dominante nell’ordine precedente delle cose. L’equivalente più diretto di Lohengrin dunque, del liberatore, sarà proprio Siegfried, il puro (figlio di un patrigno meschino, ricordiamo) che scardina un mondo arrivando da totale estraneo ad esso. Intravvediamo fra l’altro in lui il passaggio che conduce dritti al “puro folle”, a Parsifal, che inevitabilmente è la figura conclusiva della nostra panoramica. Parsifal in particolare è colui in grado di diventare “wissend”, sapiente, cosa che Siegfried non diventerà mai. E come si diventa “wissend”? Wagner risponde: “durch Mitleid”, attraverso la compassione, che Schopenhauer indicava come prima rottura degli argini rappresentativi dell’io verso il sentire della volontà universale. Intravvediamo allora come Wagner faccia germogliare alla fine i suoi redentori in un brodo di coltura che è una incredibile miscela di cristianesimo e schopenhauerismo che troviamo in particolare in Lohengrin, Parsifal e Götterdämmerung. In altre parole, lo ritroviamo regolarmente alla fine di ogni gruppo concettuale delle sue opere: alla fine della prima triade (Holländer – Tannäuser – Lohengrin), della seconda triade (Tristan – Meistersinger – Parsifal) e della quadrilogia.
Possiamo allora ricapitolare il percorso genealogico di maschere sotto le quali Wagner occulta se stesso e attraverso le quali si qualifica spudoratamente come “Redentore” dell’umanità attraverso la sua arte. Egli sarà tanto Walther, il propugnatore di una nuova arte popolare che usa e dà nuova linfa agli schemi tradizionali, quanto Tristan, il negatore della vita diurna della rappresentazione che si protende verso gli oceani notturni della volontà pura ed indifferenziata nell’amore proibito. Sarà tanto Siegfried, il germoglio verde privo delle zavorre della corruzione, quanto e soprattutto Parsifal il compassionevole. Ne risulta dunque una redenzione, come abbiamo detto in bilico fra Cristo e Schopenhauer, caratterizzata dal travalicare i confini dell’io con la sua ‘ansia di possesso (anche fosse soltanto il possesso di un nome, quel nome che Parsifal, Siegfried, Tristan e Lohengrin quasi non conoscono o non vogliono più utilizzare) verso un sentire condiviso (compassione / amore / volontà) in cui si annegano le ferite insanabili dell’individuo. Ed ecco il Graal che lui ci offre: la sua arte “popolare” e totalizzante. Ecco le sue melodie infinite in estensione e le sue armonie abissali in profondità. Torniamo allora da dove siamo partiti, da quel gruppetto di wagneriani che tanto era perseguitato dalla proprio principio di individuazione da vedere nel maestro colui che era in grado di scioglierli in un brodo primordiale. Non ho usato “sciogliere” per caso: è questo proprio l’etimo di er-lösen, diversamente dal nostro re-dimere che significa sostanzialmente ricomprare, riscattare. “Scioglimento allo scioglitore” sarebbe allora una traduzione impertinente del coro finale del Parsifal. La vita dunque come un nodo soffocante, ben figurato dal Tristan-Akkord da risolvere in una “mild und leise” cadenza:

“ertrinken,
versinken, –
unbewusst, –
höchste Lust!”“affogare,
sprofondare, –
inconsci, –
suprema voluttà!”
Portate un gallo ad Asclepio!
Era proprio per questa décadence che Nietzsche ruppe la sua sintonia con l’amico compositore, arrivando a parafrasare, ne “il caso Wagner”, il motto che dà il titolo al nostro ‘articolo in “Erlösung vom Erlöser”: Redenzione dal Redentore! Giocava qui anche tutta la sua polemica contro il cristianesimo, è evidente, ma soprattutto contro una minaccia terribile che egli aveva intravisto nella debolezza della sua epoca: il dionisiaco che tracima dagli argini apollinei per affondare ogni determinazione ed individuazione nell’indifferenziato, nell’inconscio, nello stimolo informe e senza soluzione di continuità (è questo un aspetto dell’epoca moderna poco rilevato e studiato). Eppure questo afflato decadentista di dissolvimento è anche in definitiva espressione determinata ed individuata qualora lo consideriamo come caratteristica di quella (questa?) specifica epoca, così come la musica di Wagner, con la sua intenzione e gli strumenti dispiegati per realizzarla, è espressione determinata ed individuata del suo autore. Per quanto egli utilizzi maschere (come ogni artista) ed inneggi alla fine dell’io tiranno e avido, Wagner è stato uno fra gli individui più tirannici e possessivi (“la mia arte”: quante volte lo si legge nei suoi scritti?) che ci è stato tramandato. E Deo gratias lo è stato, altrimenti non avremmo avuto la sua musica, ma solo una massa informe, un cieco brancolare nel buio dell’esistenza volitiva. E non si tratta qui di una semplice idiosincrasia fra l’uomo e l’artista, fra il predicare bene e il razzolare male. E’ proprio di ogni arte e di ogni artista quel processo quasi schizofrenico nel quale si esprime la dissoluzione del personale (in un mondo-universo creato) proprio nel momento in cui più si afferma la propria individualità (perché quel mondo è creato da lui). Se c’è una ragione decisiva, fra le tante, per cui Nietzsche è stato fondamentale per l’ermeneutica novecentesca, si potrebbe citare proprio la “Erlösung vom Erlöser”, la liberazione dall’idea della totalizzazione storica ed interpretativa. Il celebre aforisma “non ci sono fatti, solo interpretazioni” è di fatto una parte ed una conseguenza di quella presa di coscienza. Se riusciamo dunque ad ascoltare Wagner (e con lui tutti gli altri) senza farne un redentore totalizzante ma collocando la sua redenzione nel contesto in cui ha un senso, potremmo coglierne al massimo grado l’individualità e la specificità della sua opera senza dileguarla in una brodaglia informe, risultato tanto del wagneriano fanatico quanto dell’oppositore sordo. Solo mantenendo netti sotto gli occhi i confini e le forme, le individuazioni e i tratti caratteristici, potremo esperire l’opera senza perderci in essa, mantenendo cioè quella stessa “schizofrenia”, quella distanza fra personale ed universale che l’artista stesso ha dovuto sperimentare nel creare e che ogni fruitore artistico deve ripercorrere. Hegel aveva già intravisto la necessità di una dialettica fra singolare, particolare ed universale nei meccanismi di funzionamento della tragedia greca, ed il Nietzsche schopenhaueriano (che essendo agli antipodi di Hegel finisce per incontrarlo) tradurrà tutto in termini di equilibrio fra apollineo e dionisiaco. Il dionisiaco come Lösung, come scioglimento, e l’apollineo come Lösung vom Lösung, si noti proprio il meccanismo anti-tetico da dialettica hegeliana! A bilanciare il “Mitleid”, la fusione invocata da Wagner nel Parsifal, bisognerebbe dunque riproporre l’ελεος, la pietà aristotelica. Ed è forse Verdi nel teatro musicale ad aver ben inteso questa pietà come spalancamento dell’interiorità altrui che, essendo inevitabilmente altra da noi, è esperibile solo con la distanza (tipicamente tragica) dell’individuazione dell’altro distinto dal sé. In altre parole, ragionando per assurdo, quando il personaggio sta morendo in scena, Wagner ci chiederebbe praticamente di morire sciogliendoci nel nulla (nolontà) con lui. Ben diversa è invece la pietà (parola chiave) che può invocare una Aida, e che inevitabilmente è rivolta ad un entità a lei trascendente, altra da sé (lo spettatore a teatro, i Numi nel dramma: da eleos viene infatti l’eleison del Kyrie) che solo nel distacco può fare del suo dolore una esperienza estetica, lucida e non squassata dal mero spasimo. Anche il più bel quadro è infruibile se messo a 2 cm dagli occhi.

Prendiamo dunque le maschere che Wagner ci offre, e viviamole, ma sapendole maschere (forme determinate) dentro le quali sarebbe deleterio sciogliersi come in uno stampino. Non rimaniamoci appiccicati come Tristano alla sua Isotta o come la ferita di Amfortas con la lancia. Oggi che le congiunture dello Zeitgeist ci portano nuovamente ad un generale sentore di decadenza apocalittica (almeno nell’occidente, terra del tramonto) sarà tanto più invitante la tentazione di annegare nella soluzione, nello scioglimento, e tanto più difficile continuare a credere all’arte come infinito processo di interpretazione creativa che come la fenice (e a differenza di Brunnhilde) risorge dalle sue ceneri. Redimiamoci dai redentori!
Alberto Luchetti