P.I. Čaikovskij: Sinfonia n.2 in do minore Op.17 (Piccola Russia)
L. van Beethoven: Sinfonia n.3 in mib maggiore Op.55 (Eroica)
(orchestrazione modificata da G. Mahler)
Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
Direttrice Zhang Xian
Quando si parla di musica “classica”, e di sinfonica in particolare, è inevitabile un confronto perpetuo con una cosa misteriosa chiamata “tradizione”, una cosa che non nasce e non muore, ma piuttosto si tramuta continuamente e quasi in modo impercettibile garantendo il miracolo del cambiamento nella perfetta stasi apparente. Non credo si possa sopravvalutare, in musica come in tutte le arti e le tecniche umane, l’importanza e l’ineluttabilità del fenomeno della “tradizione”, dell’eredità culturale di cui ogni composizione è prima figlia e poi genitrice. Il concerto che l’orchestra Verdi, sempre diretta dall’ottima Zhang Xian, ci sta offrendo in questi giorni è come un viaggio in questo saṃsāra musicale in cui il processo metamorfico della tradizione ci si mostra in tutta la vividezza di due fra i più grandi sinfonisti: Tchaikovskij, con la sua seconda, e Beethoven, con l’immancabile terza. Ulteriore proiezione temporale ci arriva dal piatto succulento della serata, cioè la particolarità di avere presente contemporaneamente anche un terzo grande sinfonista, Mahler, di cui ascoltiamo infatti gli interventi sull’orchestrazione della sinfonia beethoveniana. In tre semplici coordinate abbiamo un rimescolamento, un marcia, visto che entrambe le sinfonie marciano nel secondo movimento, attraverso tutta la storia del sinfonismo nella sua tensione dalla forma settecentesca all’espressività del novecento.
Tchaikovskij compose la prima versione di questa sinfonia durante le vacanze estive nella tenuta di Kamianka, in Ucraina, e ce lo ricorda proprio il “titolo”: Piccola Russia è infatti il nome con cui i russi designano ancora oggi l’Ucraina. Ed il legame della sinfonia con la sua terra d’origine è ben più profondo del solo titolo. Tchaikovskij ne approfitta infatti per far bottino di canzoni e temi del folklore ucraino, tanto che questa sinfonia rappresenta il punto di contatto più diretto con il Gruppo dei Cinque, i quali facevano del loro essere russi un “must”. Tchaikovskij, maturato culturalmente a San Pietroburgo, ha invece sviluppato un approccio musicale più europeo, sia nella scelta dei temi che nelle caratteristiche strutturali delle proprie composizioni (ed una cosa implica l’altra, lo vedremo). Ciononostante non si può negare che egli fosse totalmente esente dal fascino del folklore, fenomeno così importante per la musica contemporanea di fine ottocento. Per esempio, da studente, compose “La Tempesta” proprio su canzoni popolari, ma il più diretto influsso per questa sinfonia resta il suo amore per la “Kamarinskaya” di Glinka, dal quale Tchaikovskij riclicò 2 melodie, un canto nuziale ed un motivo di danza. A fronte del successo (specialmente presso i Cinque) che la sinfonia ottenne alla sua prima nel 1873, il suo autore dimostrò invece una certa inquietudine, tanto da riprendere in mano la partitura ben 8 anni dopo per una revisione datata 1881. Compose quasi del tutto nuovamente il primo movimento (solo introduzione e coda appartengono all’originale), riorchestrò il secondo movimento ed accorciò nettamente il terzo e il quarto.
Ascoltando (come usualmente) la seconda versione, troviamo tutta la complessità del rapporto fra l’anima dionisiaca, melodica e ritmica dei canti e delle danze popolari slave e quella apollinea, strutturale ed europeista di cui abbiamo un analogo visivo nel neoclassicismo pietroburghese. E’ l’inconciliabilità delle due anime a costringere il compositore alle continue revisioni, lo si sente fin dall’avvio: un assolo di corno, che evoca il canto popolare “Scendendo per il materno Volga”, è esposto su un pizzicato di violoncelli e contrabbassi ed un disegno cromatico acuto dei violini. I fiati (come anche a fine movimento, dove tromboni e tuba creano una saturazione sonora prima che ancora il corno solista suggelli la conclusione) incarneranno la componente melodica e popolare, sostituendo in qualche modo la voce umana con cui il compositore ha avuto sempre un rapporto privilegiato (si pensi all’introduzione della Iolanta, la sua ultima opera, dove in partitura suonano solo i fiati!). Quanto più invece saranno i violini a prendersi sulle spalle la melodia e tanto più essa sarà domata, civilizzata, facendola rientrare nei canoni ritmici e tonali attraverso i quali la musica occidentale sviluppa il suo “durchkomponieren”. Non c’è tregua nel corso della sinfonia per questo contrasto fra mondi. Il secondo movimento, ad esempio, è tutto costruito su variazioni in forma di rondò (niente di più mozartiano o beethoveniano) di un marcia popolare molto brillante, dove ancora una volta fiati ed archi si contrappongono. Curiosamente, come ascolteremo con la marcia della terza Beethoven, il procedere sonoro si conclude allontanandosi e scomparendo, lasciando dietro di sé solo i timpani sul I e V grado. Ritroviamo ancora il “classico” nella struttura dello Scherzo, con la tipica vorticosa cascata di archi in 3/8, ed ancora il popolare nel trio centrale: una danza russa in 2/8. Questo ci ricorda il ruolo da protagonista che le danze hanno avuto per il nostro compositore sostanzialmente in tutte le sue opere liriche (oltre che per i balletti, ovviamente). Gli stessi contrasti infine caratterizzano massimamente il quarto ed ultimo movimento, che inizia con accordi maestosi dell’intera orchestra prima che gli archi espongano il tema principale: una melodia ucraina “ La Gru”. Se dunque prosegue il dialogo tra ottoni e archi (per esempio nell’oasi sonora in pianissimo dove protagonisti sono flauti e clarinetti), abbiamo qui, con gli archi e non più i fiati che si incaricano della parte popolare, il tentativo di fondere le due anime, ovvero le due tradizioni, è il caso di dire. Il movimento è tempestoso come solo Tchaikovskij sa esserlo (e forse ne abbiamo anche comprese le ragioni), con contrasti fra ff e pp che si succedono fino al climax dove il tam-tam suona una e una volta sola. Un rapido crescendo porta subito dopo al fortissimo con cui si conclude questa brillante sinfonia. La brillantezza non è attributo casuale. La seconda è brillante poiché appaga in maniera seducente l’orecchio dell’ascoltatore portandolo per mano tra melodie insolite ma normalizzandole nell’incedere sinfonico e strutturato della composizione. Un confronto fra prima e seconda versione ci mostra proprio il processo di imbrigliamento dell’indomito spirito russo. Sarebbe interessante sentire entrambe le versioni qui alla Verdi magari nella stessa serata, così come di recente per i Quadri di un’ esposizione.

Arriviamo dunque all’altra metà del cerchio, alla terza sinfonia di Beethoven, un pezzo fondamentale di storia della musica. Qui (siamo nel 1805) per la prima volta la sinfonia, nata due secoli prima come introduzione dell’opera lirica e perfezionatasi nel settecento fino agli equilibri schematici perfetti di Haydn e Mozart, rompe il muro di stilemi che ancora ne limitavano l’espressività per prendersi il trono della musica orchestrale. Il fatto brutale della lunghezza (quasi doppia rispetto alle durate medie delle sinfonie dei due predecessori) dimostra proprio un cambio nell’ottica di fondo: la sinfonia diventa il luogo d’elezione dell’espressione musicale, soppianta l’opera cantata, si impossessa delle sue durate, delle sue prerogative drammatiche, perfino di un certo gusto per il dipingere un tema. Non a caso la sinfonia è nota come “eroica”. Con o senza le implicazione bonapartiste, infatti, resta indiscutibile la volontà di mettere in musica ciò che precedentemente era riservato all’operistica: l’eroe, il dramma, il pathos, il tragico. Per la prima volta dunque l’enorme apparato di strutture del classicismo (bitematicità, tripartizione esposizione-sviluppo-ripresa, gioco delle tonalità, cadenze) travalica l’ideale ascetico della forma pura, del divertissment galante o dell’armonia celestiale, scende sulla terra e si incarna in un impasto orchestrale denso e tetro, straziandosi tra la più solenne tristezza e la più languida gioia. Chiaramente la mente corre al primo movimento col suo slancio eroico, oppure al secondo, con la figurazione della marcia funebre, oppure ancora al grande finale che conscio della magniloquenza dei suoi gesti (la variazione che Beethoven porterà poi ai massimi livelli) sembra non stancarsi mai di ritornare sulla scena, come il divo del canto quando l’opera è finita e va a prendersi i meritati applausi. Tchaikovskij, che venerava Mozart, al quale lo accomuna il grande estro melodico, aveva sempre chiaro quanto fosse importante il contributo di Beethoven alla causa sinfonica. Abbiamo visto la problematica strutturale nell’elaborazione della sua seconda e capiamo ora come il campo di potenzialità in cui egli si muove (inizialmente anche con un certo imbarazzo) sia di fatto proprio questo varco che l’eroica ha spalancato svariati decenni prima.

Ed in tutto questo non abbiamo ancora parlato del terzo protagonista, presente quasi come un fantasma, come burattinaio alle spalle del direttore Xian. Stiamo parlando di un certo Gustav Mahler, l’unico che nella storia della musica si sia permesso di mettere mano alle orchestrazioni di Beethoven. L’occasione di seguire la partitura con le sue annotazioni e modifiche è rara ed eccezionale, in qualche modo permette di ritrovare il Mahler direttore d’orchestra, e quindi interprete e musicologo, stimato all’epoca come uno dei più grandi (e molto più del Mahler compositore). Cominciamo dunque col lodare l’iniziativa e il maestro Xian che dimostra, oltre che controllo e sinergia con l’orchestra, anche grande approfondimento e curiosità nel suo mestiere. Vediamo quali peculiarità l’esecuzione ha fatto emergere: salta innanzitutto all’occhio e all’orecchio l’alterazione nella composizione dell’orchestra, con i bassi (soprattutto fra gli ottoni) praticamente raddoppiati rispetto alla partitura originale, ne risulta una maggior potenza di tutto il complesso strumentale (specialmente nelle parti dedicate ai contrabbassi, come all’inizio della marcia funebre) controbilanciata da una ricercata plasticità nell’esporre i temi nel registro acuto (molti suoni legati diventano staccati, molti cambi nella dinamica e nell’agogica per enfatizzare l’entrata dei temi, ). Complessivamente l’effetto è come un aumento del “contrasto” fra chiari e scuri, alti e bassi, un senso di maggior profondità dell’incisione figurativa e dunque di maggior solennità e monumentalità. Riconosciamo allora almeno un carattere del Mahler di cui abbiamo fatto la piacevole conoscenza attraverso le sue sinfonie (si pensi come esempio alle trauermarschen della prima e della quinta). Particolare risalto viene così dato ai momenti di maggior transizione (ad esempio la modulazione a note ribattute in ff intorno a bt.250 del primo movimento) che, nella visione mahleriana di Beethoven, erano anche i momenti di maggior pathos e profondità musicale. Tacciato immediatamente di sionismo anti-ariano, Mahler rispondeva notando che le sale da concerto e gli strumenti non erano più i medesimi di inizio ‘800, e dunque era perfettamente legittimo adeguare l’orchestrazione all’attualità.
Ritorniamo attraverso il saṃsāra al problema iniziale: tradizione e rinnovamento. Oggi, per noi, tutto questo è ulteriormente decantato in passato, in tradizione, ma possiamo leggere nei contrasti intimi di Tchaikovskij, nell’interpretazione beethoveniana di Mahler, nell’ottima (attenta, precisa e non banale) esecuzione dell’orchestra Verdi diretta dal maestro Xian, quella che è la giusta ottica nei confronti dell’eredità del passato: non subirla passivamente, ma comprenderla e adattarla. Così si “fa” tradizione (che nell’etimo ha sempre anche qualcosa di “tradire”), si porta avanti, e si entra nel processo ciclico e secolare. “Artisti e non artigiani”, secondo le parole di Mahler stesso!
Tobia da Franchi ed Alberto Luchetti