Vige un paradosso su Ludwig van Beethoven: è impossibile dirne qualcosa di nuovo tanto quanto è impossibile non parlar ancora e sempre di lui. La figura di Beethoven è di quelle che a buon diritto spiccano nella storia dell’umanità, trascendendo ogni limite e categoria, mostrando il volto più luminoso ed alto che l’uomo abbia saputo raggiungere. Per questo non si resiste alla tentazione di parlarne, di tentare di affondare nel mistero della sua grandezza, un mistero che, come lui stesso amava dire, è meno mistico di quanto sembri (è celebre la citazione riportata da Bekker: “gli effetti sorprendenti così spesso attribuiti al genio del compositore possono in molti casi essere ottenuti facilmente col corretto uso e risoluzione delle settime diminuite“). Theodor W. Adorno ha trascorso la sua intera esistenza preparando un libro su Beethoven e non riuscendo mai a concluderlo. Una cosa però gli era molto chiara: il tempio in cui si sarebbe rivelata la Verità del compositore sono le sue ultime opere, quelle più criptiche. Da qui dunque partiremo.

Una panoramica sulla produzione del “tardo” Beethoven ci rivela innanzitutto due colossi, la Missa Solemnis e la Nona Sinfonia, opere che Adorno considerava come gli ultimi due baluardi dello stile “classico”. Queste sono dunque le due colonne d’Ercole alla cui ombra prolifera una costellazione di quartetti d’archi e composizioni per pianoforte (sonate, bagatelle e variazioni) che ci conducono verso il più meraviglioso oceano musicale che la tradizione occidentale sappia offrirci. Cominciamo da un saldo punto di partenza, il terzo movimento del quartetto d’archi n.15 in la minore, op.132. Il linguaggio musicale è qui ancora molto tradizionale (per quanto atipico per un quartetto d’archi) se non addirittura a tratti arcaico (il modo lidio, la forma ad inno o corale, il contrappunto), lo sviluppo melodico è ampio e mai spezzato, estremamente vicino al terzo movimento della nona e dunque alle compattezze del sinfonismo. Ci interessa tuttavia soprattutto la didascalia che Beethoven appone sulla cui partitura, ovvero “Heiliger Dankgesang eines Genesenen an die Gottheit” (Santo canto di ringraziamento di un convalescente a Dio). Questa sarà la nostra prima chiave di lettura: Beethoven ringrazia in musica Dio per una guarigione. I biografi si affretteranno a riferirci della malattia intestinale di fine 1824, ma ameremmo invece evitare la banalità dell’umano troppo umano e cercare di cogliere l’essenza straordinaria del gesto beethoveniano: egli compone letteralmente “per” Dio, essendo ormai privo della possibilità di ascoltare lui stesso quanto ha scritto. Nella guarigione possiamo allora leggere la catarsi di un percorso di accettazione compiuto. Saltiamo ad un’altra didascalia, questa volta all’ultimo movimento del quartetto n.16, op.135, siamo proprio alle ultime battute del commediante sulla scena, leggiamo ed ascoltiamo: “Muss es sein? Es muss sein!” (es.1). E’ la conferma dei sospetti.

Abbiamo la chiave di lettura, torniamo a scorrere le ultime composizioni per quartetto e per pianoforte. Partiamo dall’evidenza macroscopica nelle scelte di forma: predominano la variazione (opp.111, 120, 127, 131, 135) e la fuga (opp.110, 120, 133). In entrambi i casi si tratta di proliferazioni di un unico tema germinale fino ad ampissime ramificazioni. Due sono le conseguenze: da una parte l’emergere di uno spezzettamento del discorso in gesti brevi, staccati e ripetuti, dall’altro un recupero dell’unità attraverso uno sviluppo del tema o dei temi che potremmo definire “per aspera ad astra”. Cellule tematiche sempre più brevi dunque si caricano sulle spalle il compito di esprimere i mondi più complessi e di mettere in scena l’antico dramma della catarsi attraverso il dolore. Ancora una volta l’esempio più radioso sono le tre note che ricalcano “Es muss sein!” (vedi ancora es.1). Beethoven ha composto perfino un canone, WoO 196 (ascolta), su questa formula, “Deve essere!”: questo è il grido di battaglia che i temi ribattuti e variati fino allo stremo ci ripetono, con sempre maggior forza e disperazione, fino all’estasi dell’accettazione. “Per aspera ad astra”, per l’appunto. L’ultima sonata per pianoforte, op.111, introduce già nitidamente questo concetto scindendo con forza il dualismo in due movimenti distinti: agli aspera sarà dedicato il Maestoso-Allegro con le sue settime diminuite (es.2, ascolta)

e il do minore beethoveniano, così carico di reminiscenze; degli astra si occuperà invece l’Arietta, con le sue variazioni. Vale la pena di ricordare il paragrafo che Thomas Mann (nel Doktor Faustus, su ispirazione di Adorno), dedica al finale di quest’opera, dove l’elementare tema in do maggiore ritorna adagiandosi su un letto di trilli celestiali per dare il suo addio (ascolta). La parola che più si presta per questo momento è “nostalgia”. Ecco dove vanno a parare i tre elementi appena analizzati: variazione e fuga ci fanno conoscere un tema, ce lo ripropongono in una serie di metamorfosi che attraversando le più tremende tenebre e modulando i più strazianti lamenti possono infine riaffermarlo nel suo candore originario, affermando così anche tutta la distanza che nel frattempo ci ha separato da esso. Solo così esso sarà prima il luogo della domanda “doveva andare proprio così?” e poi, trasfigurato, la risposta più sublime: “sì, doveva andare così”. Le variazioni Diabelli op.120 ribadiscono questo schema nel finale: una fuga eredita il dolore del Largo (molto espressivo: ascolta) precedente e spiana la strada all’ultima variazione, un minuetto delizioso che ancora una volta (e soprattutto in rapporto al valzer originario) è un bagno di nostalgia redentrice per il quale valeva in fondo la pena di fare tanta strada. Inutile dire che lo stesso discorso vale per il quarto movimento dell’op.131 (quartetto n.14, ascolta): ancora variazioni, ancora lo squarcio sublime in cui il tema dà il suo addio nel finale. E che dire della grande fuga op.133? Del riapparire del tema, in un’oasi di silenzio, dopo quasi quindici minuti di foga polifonica, pronto a salire all’estasi finale (ascolta)?

Siamo ormai alla conclusione, resta da vedere ancora l’epilogo, seppur già evocato più di una volta: l’op.135. L’ultima opera maggiore scritta da Beethoven e forse la più imperscrutabile. Il primo movimento è un capolavoro di spezzettature. Tutto il materiale musicale si potrebbe ridurre a 5-6 cellule melodiche e di transizione intorno alle combinazioni delle quali ruota il motore drammatico. Lo schema della variazione pare dunque non poter più contenere la complessità delle esigenze compositive di Beethoven. Siamo come presi in un caleidoscopio nel quale vediamo infrangersi e moltiplicarsi gli atomi musicali. Solo nel finale ritroviamo le intenzioni che già conosciamo quando ritorna per congedarsi il tema d’apertura (meravigliosamente indugiante con corona sul do, dominante, prima di concludersi in scale discendenti fino al fa, tonica: ascolta). Un altro stilema molto riconoscibile nell’op.135 è l’emergere di una melodia nel registro più acuto del primo violino, come se sublimasse dall’intrico sottostante. L’abbiamo visto nell’op.111 e nella grossa fuga (oltre che nel Dankgesang), ora lo ritroviamo sia nel secondo movimento (nel cuore dello sviluppo, al termine del climax: ascolta) che nel terzo (nel finale, dove la voce acuta si incarica anche delle ripetizioni nostalgiche conclusive: ascolta). Al caleidoscopio del primo movimento corrisponde quindi una sorta di lacerazione dualistica (anche questa già segnalata in altre composizioni) fra registro alto e basso. Si offre qui un paragone interessante con la nona sinfonia, indiscusso capolavoro ed apice della fase “classica”. Si possono infatti tracciare delle specularità fra lo sviluppo delle due opere (allegro – vivace – lento – finale bipartito) così da delineare la differenza sostanziale fra di esse: tanto l’op.125 è l’apoteosi dell’unità, tanto l’op.135 lo sarà della molteplicità. La nona ci mostra l’unità originaria (la quinta vuota iniziale da cui emergono la terza e la melodia) e l’unità ritrovata nel finale (i cori all’unisono); l’ultimo quartetto d’archi invece inizia subito nel segno della divergenza (gli “sfoghi” verso l’alto a bt. 2 e 4), si lacera nei due movimenti centrali (si noti anche come il vivace è qui privo dell’introduzione presente nella nona, inizia come “in medias res”) e si conclude senza trionfalismi nella schizofrenia del pizzicato (col violino ancora “sopra le righe”: ascolta). Proviamo allora a tracciare la differenza anche nei due “motti” che accompagnano i pentagrammi: nella nona sinfonia c’è il rifiuto, “O Freunde, nicht diese Töne”, la Gioia deve unirci tutti di nuovo, chi non gioisce se ne vada (“Weinend sich aus diesem Bund”); nel quartetto invece, lo abbiamo visto, c’è l’accettazione. E cosa significa l”accettazione? Significa non poter più costringere all’unisono, dover unire e cantare i disparati, i divergenti, dover insomma tentare l’impossibile. Si ribalterà certamente il fa minore della domanda “Muss es sein?” e la sua melodia a V in un fa maggiore con melodia a Λ, ma non questo non farà che dare ulteriore vigore alla lacerazione stessa. La figura chiave dell’op.135 resterà allora piuttosto quella incerta del violino acuto, che si proietta in una scala ascendente fino ad interrompersi quando si accorge di esser rimasto solo e diviso dalle altre voci (es.3). Ed è veramente questa l’anima di tutta l’opera, la riconosciamo ora già in nuce nelle btt.2 e 4 dell’es.1, e possiamo andare a scoprire che ritorna in tutti i movimenti. Nel primo ad esempio a bt.40 (ascolta) e bt.137 (ascolta), nel secondo nelle btt.180-110 (ascolta) e nel terzo è molto evidente a bt.51 (ascolta). Non sorprenda che siano proprio gli stessi momenti in cui avviene la lacerazione fra registro alto e basso. Nel quarto movimento infine la scala ascendente interrotta articola addirittura le varie sezioni, come si vede a bt.43 (ascolta), bt.78 (ascolta) e bt.240 (ascolta), ed in quest’ultimo esempio scoviamo la Verità che Beethoven ci offre: essa non cade più nel vuoto, è seguita da quelle tre note che ormai conosciamo, “es-muss-sein”. Vorremmo chiudere allora proprio con questa immagine, simbolica del percorso di Beethoven, proiettatosi in musica più in alto di qualunque altro essere umano, solo per rendersi conto della solitudine astrale di lassù. Eppure egli non si è stancato di levare il suo canto di ringraziamento e lode a Dio, di accettazione anche della beffa più atroce, la sordità, la solitudine, un esito di cui l’artista ha saputo fare un destino. “Es muss sein!”. Così egli leva ancora oggi il suo canto all’Unico che possa ascoltarlo, e noi con lui siamo sublimati da questa tensione, infinita, verso l’impossibile, che Beethoven ha incarnato.

Alberto Luchetti
LINK per le partiture: Op.135 / Op.133 / Op.132 / Op.131 / Op.120 / Op.111
LINK per l’ascolto: Op.135 / Quartetto no.16 / The Lindsay String Quartet
LINK per l’ascolto: Op.133 / Größe Fuge per quartetto no.13
LINK per l’ascolto: Op.132 / Quartetto no.15 Mov.III: Heiliger Dankgesang einen Genesenen
LINK per l’ascolto: Op.131 / Quartetto no.14 Mov.IV (variazioni) / The Lindsay String Quartet
LINK per l’ascolto: Op.120 / Variazioni Diabelli / Alfred Brendel
LINK per l’ascolto: Op.111 / Piano Sonata no.32 / Friedrich Gulda
Interessantissimo davvero questo articolo!
Grazie Gì, ne approfitto per invitare i milanesi al conservatorio mercoledì 18 Aprile 2012 dato che il Quartetto di Venezia suonerà proprio l’op.135.