R. Wagner: Rienzi, Ouverture
L. van Beethoven: Concerto per pianoforte ed orchestra n.1 Op.15
Pianista: Gianluca Cascioli
G. Mahler: Fünf Lieder nach Rückert
Mezzosoprano Ildiko Komlosi
Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
Direttrice Zhang Xian
Prosegue il percorso germanofilo all’Auditorium di Milano, e prosegue con un concerto quasi gemello al precedente, con l’introduzione di una ouverture, un concerto per pianoforte di Beethoven ed un gran finale affidato alle commistioni di orchestra e voce di Mahler. Curiosamente, confrontando i due programmi, vediamo un doppio movimento: da una parte l’avanzare (da Weber a Wagner e dal Mahler giovanile ad un Mahler già maturo), dall’altra uno sguardo indietro al primo concerto per pianoforte ed orchestra di Beethoven. Su questo doppio binario “forward-backward” ci piacerebbe articolare una piccola “Erinnerung” della serata.

Già dal primo brano, l’ouverture del Rienzi, abbiamo sentore di questa anima duplex: metà Wagner, il Wagner che conosciamo, e metà Meyerbeer. Metà Zukunftmusik e metà grand opéra. La direzione di Zhang Xian non perde l’occasione per far valere entrambe le nature. Dapprima lo spirito germanico, subito in avvio, in pianissimo, con un la (dominante) tenuto che sembra quasi ancora una fase di accordatura, come nella nona beethoveniana. A differenza dell’opera culmine della musica germanica, qui abbiamo siamo in re maggiore e non minore, e l’ingresso della tonica e della terza maggiore ai legni (bt. 7) ha tutt’altro sapore. Continuando l’ascolto, ritroviamo le atmosfere e gli impasti orchestrali del Wagner successivo nelle profondità dei violoncelli e nei richiami di corni e fagotti (già embioni di leitmotive: il canto di guerra dei Colonna), ma presto l’altra anima ritornerà prepotentemente a galla, spinta avanti, nel suo conservatorismo, dal ritmo di marcia. Pare quasi di sentire Verdi. Sempre più l’ouverture sarà dominata da questi unisoni bandistici, con il sempre più riconoscibile tema di Rienzi a farla da padrone. La direzione non ha tentato di blandire questi eccessi, ben comprendendone l’essenzialità nell’economia compositiva: tanto lento e pastoso l’avvio, tanto veloce e saltellante il finale. Non è un caso che questa partitura così caratteristica sia peraltrogià stata “frequentata” da molti grandi direttori d’orchestra, a differenza dell’intera opera, restaurata da una difficoltosa edizione critica e praticamente registrata dal solo Sawallisch (e con molti tagli).

Il processo a ritroso si compie con la seconda scelta di scaletta: il primo concerto di Beethoven. Se pensiamo che già la forma concerto era per il compositore bonnese un terreno poco sperimentale e aggiungiamo che siamo qui alle prime pubblicazioni, dovrebbe essere chiaro che ci troviamo di fronte ad una composizione quasi mozartiana e settecentesca. Il primo movimento è particolarmente anonimo, col pianoforte protagonista dei pochi momenti brillanti e l’orchestra come mero accompagnamento. Solo nel Largo cominciano a vedersi i caratteri più beethoveniani, con l’estensione pianistica che raggiunge anche le note più gravi ed un accenno di dialogo fra orchestra e solista, risolto poi con una pedante “ultima parola” del pianoforte, mentre il Rondò è se non altro un esercizio di stile e brillantezza degno di nota. Sentiamo un Beethoven insomma già padrone della tecnica compositiva e di quella pianistica (si pensi alla lunghissima cadenza del primo movimento) e già implacabile nell’unità formale (fra l’altro un do maggiore che lascia pochissimo spazio a cromatismi), ma ancora privo di quella spiritualità che lo renderà immenso santo patrono dell’ottocento. E’ come se questo concerto non volesse mai scendere sufficientemente in profondità da trovare lo slancio per salire al sublime. Non si può dunque criticare al pianista, Gianluca Cascioli, la banalità dell’interpretazione, dato che è il brano stesso a non offrire terreno fertile. Si può anzi apprezzare il carattere un po’ lunare che l’esecutore ha dato, perfettamente in linea col suo look etereo e sognante, ad una composizione già di suo priva di “sostanza”, e quindi forse riscattabile soltanto in questa dimensione volatile.

Siamo giunti al terzo segmento dell’ideale percorso a Z della serata, torniamo cioè a guardare in avanti, verso il futuro (per noi ormai sono tutti passati relativi, ovviamente!) rappresentato per l’occasione ancora una volta dal grande Mahler. Settimana scorsa, col Klagende Lied, eravamo ancora ai suoi esordi compositivi (circa 1880), oggi facciamo un balzo di vent’anni fino al 1901-2 per entrare nel mondo dei cinque Rückert-Lieder. L’orizzonte mahleriano è in quegli anni in gran parte coperto dal panorama di Des Knaben Wunderhorn, sia sotto forma di Lied che di sinfonia (3a, 4a e 5a). I Rückert-Lieder, insieme ai successivi Kindertotenlieder (sempre su testo di Rückert) sono la fondamentale cerniera di passaggio verso le sinfonie successive (6a e 7a) che non a caso vengono a volte identificate proprio come sinfonie-Rückert, in opposizione all’immaginario infantile e fiabesco del Knaben Wunderhorn. Quasi tutti gli studiosi hanno evidenziato proprio il ruolo articolatorio dei Lieder nella produzione di Mahler. Qui siamo a quella svolta che Adorno identifica fra un nostalgismo effettivo ed uno ormai trasfigurato nel “lungo sguardo”, ovvero nella coscienza dell’irrealtà dell’ideale fanciullesco e nel pathos della distanza da esso. Se tutta la serata è un gioco di sguardi in avanti e indietro, qui si coglie finalmente la sostanziale identità fra la proiezione al futuro e l’infinita eredità del passato. I testi sono già molto indicativi. Il quintetto di Lied si apre con una smaliziata excusatio non petita che ci invita a non sbirciare nei canti finché essi non sono finiti. Ci invita proprio ad avere un “lungo sguardo”, a non vedere i piccoli crucci dell’autore ma il grande sentimento universale di cui egli è il medium. Così dovremmo ascoltare “Ich atmet einen linden Duft”, dove il profumo è il perfetto simbolo della impalpabile traccia mnestica ormai separata dalla sua origine dal trascorrere di epoche infinite. C’è proprio un percorso della distanza, al cui campo semantico si aggiungono altre due parole: Liebe e Lied. Sono le parole con cui si chiude il meraviglioso “Ich bin der Welt abhanden gekommen”, sono cioè i due “cieli” solitari da cui il poeta esercita il suo “lungo sguardo” sul mondo ormai perduto. Sarà una di queste parole, Liebe, amore, a chiudere infine il quinto canto, “Liebst du um Schönheit”. E’ infatti proprio l’amore il miglior sinonimo del “lungo sguardo” adorniano, in quanto unico sentimento capace di coprirne le distanze e sopportarne le disperazioni. Siamo già alle porte dell’ottava e della nona sinfonia.

A cantarci questo inno tardoromantico è stata la prodigiosa mezzosoprano di scuola ungherese Ildiko Komlosi, già celebrata nei maggiori teatri del mondo (fra cui la Scala, in una recente Aida). La voce potente ha riempito la sala dell’Auditorium toccando le corde più profonde, soprattutto nei meravigliosi intervalli ascendenti a cui Mahler affida spesso i momenti più toccanti dei suoi canti (penso all’inizio di “Ich atmet einen linden Duft” o al passaggio sul dolore dell’uomo in “Um Mitternacht”), ma gestendo molto bene anche le mezzevoci, merce sempre più rara. Ogni tanto, se vogliamo trovare qualche imperfezione, ha lasciato un po’ a briglie sciolte la generosità della voce, tradendo la sua abitudine al canto operistico più che a quello liederistico. E’ il caso soprattutto dell’intenso passaggio conclusivo di “Liebst du um Schönheit”, peraltro poi ripetuto come bis (applauditissimo) in modo molto più controllato. Degno epilogo di questo prezioso angolo di germanesimo a Milano!
Alberto Luchetti